Satyagraha

"Per me la vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un bambino. Sarei restio ad ammazzare un agnello per sostenere il corpo umano. Trovo che più una creatura è indifesa, più ha il diritto ad essere protetta dall'uomo dalla crudeltà degli altri uomini."
M. K. Gandhi

In questi giorni, come ogni anno, migliaia e migliaia di agnelli sono stati massacrati per fornire l'arrosto di pasqua... Penso che la citazione appena scritta sia una delle migliori per ricordare Gandhi, a sessant'anni esatti dalla sua uccisione.

Non so parlare molto del suo ruolo strettamente politico, che pure fu importantissimo e condusse l'India all'indipendenza. A me Gandhi piace ricordarlo per il suo messaggio spirituale, perché credo che questo sia il lascito più importante che fece al mondo intero. E del resto lui stesso considerava tutta la sua attività politica e sociale come uno strumento per la diffusione della verità e della giustizia tra tutti gli esseri viventi.

Verso la fine della sua vita un giornalista occidentale gli domandò frettolosamente quale fosse il suo messaggio per il mondo. Gandhi rimase colpito dalla domanda e dal suo stile, così brutalmente diretto e semplicistico. Stette in silenzio per pochi secondi, e poi rispose a testa china, umilmente e candidamente: "La mia vita è il mio messaggio per il mondo"...
Come si chiedeva Tiziano Terzani commentando questo fatto, quanti uomini politici oggi potrebbero rispondere così?

Qual è stata quindi la vita di quest'uomo, una vita così esemplare da essere in se stessa un messaggio? Io penso che la vita del Mahatma ("grande anima", come lo designò il poeta indiano bengalese Tagore, dopo il loro incontro) sia stata quella di un uomo che scelse di incarnare perfettamente l'ideale della non-violenza. In realtà, a ben guardare, non c'è altro nella sua vita. Non c'è che la non-violenza.

Ma se si vuole capire veramente Gandhi e il suo "messaggio al mondo", bisogna dire e pensare "non-violenza" esattamente come lo faceva lui. E lui è stato il primo uomo ad aver trovato un modo semantico positivo per esprimere un concetto negativo. La non-violenza, il glorioso ideale di tutta la tradizione spirituale "eretica" indiana, dal Buddha e da Mahavira in poi, ossia l'"ahimsa" ("a" è la particella negativa corrispondente a "non", "himsa" significa "violenza" in sanscrito), lui la trasforma in "satyagraha", ovvero "la forza della verità", qualcosa di positivo da affermare con forza nel mondo. Qualcosa per cui vivere.

Gandhi dunque credeva che esistesse una verità. Credeva che questa verità fosse la legge della fratellanza e dell'amore verso tutti gli esseri. E che il modo in cui questa verità si manifestasse nel mondo fosse la giustizia. Ed era convinto che ogni uomo fosse tenuto a comportarsi secondo questa verità, e a battersi perché questa stessa verità prevalesse nel mondo. Ovunque, e presso tutti gli esseri senzienti, animali compresi. Nient'altro che questo va cercato, credo, se si vuole capire il "messaggio" di Gandhi per il mondo. Nient'altro che la "forza della verità".

Le battaglie politiche erano solo il modo principale che lui aveva scelto per portare avanti la sua lotta personale perché la "verità" si manifestasse nel mondo. In uno dei suoi scritti confessò di considerare l'intera sua vita come "un esperimento con la Verità", in un senso simile, forse, a quello con cui Leonardo da Vinci consacrò la propria vita agli esperimenti sulla natura e le sue leggi.
Ma anche il suo essere vegetariano era satyagraha, era comportarsi in modo tale da sostenere la verità, da farle breccia nel mondo. I suoi digiuni di protesta contro le violenze erano satyagraha. Il suo vestirsi di cotone grezzo bianco era satyagraha, perché il cotone l'aveva filato lui stesso, e questo era simbolo di autogoverno dell'India e di boicottaggio al colonialismo straniero e alle importazioni forzate. E di semplicità contadina. I suoi giorni di silenzio obbligatorio era satyagraha, perché boicottava il rumore concedendo pace al suo animo e permettendo così alla verità di possederlo pienamente.

Una cosa che raramente si sente ricordare, è che Gandhi in realtà aspirava a un'indipendenza per l'India che andasse molto al di là di quella politica dalla Gran Bretagna. Voleva che il suo paese ritrovasse le proprie radici spirituali, che praticasse la satyagraha, che tornasse all'autogoverno agricolo dei villaggi rurali boicottando lo sviluppo industriale. Voleva che l'India raggiungesse l'indipendenza non soltanto dal colonialismo occidentale, ma anche dal modo di pensare e di vivere occidentale.

Sul finire della sua vita, prima che fosse ucciso da un fanatico indù, Gandhi soffrì molto a vedere il suo paese smembrarsi violentemente in 2 stati, e per motivi religiosi oltretutto. Era la fine del suo sogno di armonia e fratellanza tra musulmani e indù in un'unica patria. Forse fu un bene che la morte gli risparmiò almeno l'altra grande delusione: quella di assistere allo spettacolo di un paese portato a tutta velocità sulla stessa strada che i colonialisti appena vinti avevano tentato per 3 secoli di fargli prendere, cioè lo sviluppo industriale. Nehru, il suo figlioccio prediletto, e gli altri suoi collaboratori, avrebbero presto tentato - e sarebbero in parte riusciti nell'intento - di trasformare l'India in una Europa equatoriale.

La sera prima di quella in cui fu ucciso, disse ai suoi che se fosse morto per causa di una pallottola esplosa da qualcuno dei suoi "fratelli" e nondimeno lo avesse in quel momento perdonato, giungendo le mani al modo indiano e pronunciando il nome di dio, allora e solo allora avrebbe potuto considerare sé stesso una persona integra e coerente. Il giorno dopo, la sera del 30 gennaio 1948, nel ricevere la folla dei suoi ammiratori dopo le preghiere serali, Gandhi cadeva a terra sotto i colpi della Beretta (pochi sanno che l'arma era una pistola di marca italiana... e la Beretta in Lombardia chiuse per lutto pochi giorni dopo la morte del Mahatma) del fanatico indù Nathuram Godse giungendo le mani, e invocando il suo dio: "He Ram" furono le sue ultime parole. "Oh Dio!".

(by Francesco)

Un mondo (e un Paese) sbagliato

(by Francesco + Beppe Grillo)

Sono stato alla manifestazione di Campo de' fiori per il Tibet. Molto bella. Poca gente, ma buona. Ai più, del Tibet continua a non fregare un cazzo. Kissà perché... boh! Anyway, vi copio qui sotto un post di Grillo sul tema.

Prima del post, vi segnalo un libro moooooooolto interessante che sto leggendo: "Un mondo sbagliato", di Jim Mason, ed. Sonda. L'autore esamina le radici culturali dei mali del pianeta: violenza sulle donne, maschilismo, sessismo, violenza sugli animali, guerra, schiavitù, sfruttamento economico, colonialismo, razzismo e omofobia. E ne diagnostica l'origine, in modo veramente suggestivo e geniale, in ciò che lui chiama "ideologia del dominio": ovvero la posizione culturale che assegna all'uomo il dominio sugli altri animali e sulla natura, inventando un dio maschile creatore e onnipotente e designando l'uomo come il "custode" del creato. Da questa ideologia seguono i mali di cui sopra, in modi complessi e magistralmente analizzati dall'autore.

Ma l'idea più interessante del libro è l'origine culturale di questa ideologia del dominio: veicolata dall'ebraismo (civiltà nomade pastorale monoteista e maschilista), dall'antica cultura greca (una "democrazia" fondata sulla schiavitù e sulla segregazione delle donne, nonché sulla pastorizia), dall'impero di Roma (culla del fascismo, del colonialismo e dei combattimenti animali) e da cristianesimo e islam in seguito, tale ideologia viene da molto più lontano: precisamente, dalle culture pastorali del medio oriente, in ciò che oggi è l'Iraq.
L'autore dimostra in modo sorprendente come la domesticazione e successiva riduzione in schiavitù di cavalli, cammelli, pecore, capre e bovini in medio oriente abbia permesso a quei popoli pastorali seminomadi, già culturalmente aggressivi e bellicosi (com'è noto che sono tutte le culture arcaiche pastorali, prive di terra e alla continua ricerca di nuovi pascoli da rubare alle popolazioni stanziali agricole) progressi militari ed economici tali da sviluppare una cultura umana del tutto nuova per il pianeta: violenta, fondata sullo stato-nazione imperiale, specista, espansionistica, monoteista, maschilista, patriarcale e militarista.
Con essa s'è lacerato l'antichissimo legame dell'uomo con la natura e sono sorti lo sfruttamento animale e la supremazia maschile sulle donne. Questa cultura s'è espansa diffondendo le sue idee e il suo stile di vita in tutto il bacino del mediterraneo, spazzando via le precedenti culture matriarcali stanziali e pacifiche, fondate sull'agricoltura e la raccolta, e caratterizzate da religioni "femminili" (culti di fecondità, egualitarismo, matriarcato, vegetarismo). Con l'imperialismo romano questa ideologia di dominio s'è diffusa in tutto l'occidente. E col colonialismo economico occidentale degli ultimi 3 secoli, in tutto il pianeta.

E' come se l'umanità a un certo punto nella storia, con gli imperi Sumeri-Assiri-Babilonesi, abbia reciso il suo ancestrale legame con la natura tramite la domesticazione animale (che ha consentito progressi agricoli e militari e ricchezze materiali mai viste prima in nessun'altra cultura umana) e abbia scelto così una strada segnata da violenza e sopraffazione. Strada che da allora in poi ha segnato purtroppo il successivo corso della storia. Il nostro rapporto con gli altri animali, la visione occidentale di essi dunque... il considerarli come merce, cibo, schiavi, potrebbe essere alla radice degli attuali mali del pianeta.

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18 Marzo 2008 - da www.beppegrillo.it

Vieira - Dalai Lama 1-0

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Il massacro dei tibetani è sulle prime pagine dei più importanti giornali del mondo libero. Da noi è un po' meno presente. Questione di priorità. In Italia l'informazione è serva, ma in modo comico, surreale, cialtronesco. Gli articoli sono palle colorate lanciate in aria dai clown dell'informazione assunti come direttori di giornali.

Il Corriere della Sera di ieri. Prima pagina. Foto centrale con "Vieira fa gol per Mancini" , 12 cm x 14,5, e sulla destra un titolo "Marina fa l'elogio di Luxuria, 2 cm x 11,5. In alto a destra un richiamo al Dalai Lama, 5 cm x 5,5 titolo e inizio articolo compresi e subito sotto un lancio dell'intervista a Andrè Glucksmann "Boicottare i Giochi non serve a nulla", 6,5 cm x 5,5: un centimetro più del Dalai Lama.

Il lettore che ripone la sua fiducia in Paolo Mieli e nel "salotto buono" del Corriere si inoltra a questo punto nella lettura delle pagine interne. Cerca, come è naturale, la notizia del giorno. Tibet, Lhasa, Dalai Lama, Cina, Giochi Olimpici. Pagina 2 e 3 sono dedicate alle amministrative in Francia. Certo, sono importanti, ma il Tibet? Sfogliamo. A pagina 5, dopo la pubblicità, c'è una foto di Testa d'Asfalto, 13 cm x 13,5, sotto il titolo "Protesta sulle pensioni, Berlusconi frena", 28,5 cm x 1,5. Andiamo avanti. Pagina 6 è dedicata a "La cura Air France all'esame del governo", titolo da 29,5 cm x 1 e due foto 2 cm x 2 della coppia Formigoni - D'Alema con le loro dichiarazioni in box virgolettati da 7 cm x 2.

Dopo le fondamentali opinioni dei nostri statisti Lhasa può sempre attendere. Doppia pagina 8/9 sul servizio "Emergenza imballaggi", titolo monstre 24,5 cm x 2,5 e una foto con gli ortaggi di stagione 37 cm x 24. Pagina 10 e 11 a questo punto non ci deludono. Della repressione cinese ancora non c'è una riga, ma le interviste riportate sono fondamentali. Titoli: "Veltroni sfida il Cavaliere. Siete voi che copiate" 17 cm x 3, "Capotondi: non corro, vorrei Silvio e Walter insieme" 26 cm x 1, "Mussi, il trapianto e la politica. Mi ha salvato mia moglie", 17 cm x 3. E' presente in una colonna personale di 33 cm x 4 anche l'immancabile monito dal Colle "Napolitano: politica urlata un danno alle istituzioni".

Sfinito, anche il più accanito lettore di Romano e Severgnini non si aspetta più nulla sul Dalai Lama e, infatti, lo accolgono a pagina 12 la pubblicità e a pagina 13 a famiglia Berlusconi, mezza pagina a testa per il papà Silvio e la figlia Marina. In alto: "Berlusconi: urne, c'è il rischio di brogli", 25 cm x 1,5 e, sopra il titolo, "Per vigilare sulle elezioni ci sarà l'esercito dei difensori della libertà. E ricorda la prima fidanzata" 23 cm x 0,5. Sotto: "Marina a sorpresa: mi piace Luxuria è preparata e spiritosa" 9,5 cm x 4. Le foto del papà con folla adorante, 26, 5 cm x 7,5, e della figlia, 15 cm x 9,5, completano la pagina. Ma non bisogna mai disperare. Infatti, a pagina 14 c'è il Tibet con il titolo su due righe "In Tibet genocidio culturale. Ma no al boicottaggio dei Giochi" 21, 5 cm x 3 e a pagina 15, a fronte l'intervista a Glucksmann "Disertare Pechino? Così non serve" 20,5 cm x 1,5. Il messaggio di pagina 14 e 15 è quello di non disertare i Giochi. La libertà del Tibet può attendere.
Per curiosità ho confrontato il Corriere con il Financial Times di ieri.

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Foto centrale della prima pagina con la protesta dei monaci 21,5 cm x 11,5, titolo "Chinese seal off Tibetan capital" 3,5 cm x 3, 5. Subito a pagina 2 un articolo su Lhasa, titolo "Tibetans' grievances with Beijing spill over violence" 11 cm x 3,5, foto di un tibetano in esilio 17 cm x 7,5. Leggete con il righello.
Vieira batte Dalai Lama 1-0. Libera informazione in libero Stato. V2 day 25 aprile.

Lager Italy

Le violenze impunite del lager Bolzaneto
Oggi la caserma non è più quella di allora: cancellati i "luoghi della vergogna"
Manganellate, minacce, umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di 300 testimoni

di GIUSEPPE D'AVANZO

C'ERA anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri l'hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione dei diritti umani", ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell'amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell'acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva.

Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista...). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un criterio prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è andato molto vicini", ma l'accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.

Il reato di tortura in Italia non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).

Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.

Nella prima Magna Carta - 1225 - c'era scritto: "Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all'articolo 13 si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà"

La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un'accorta gestione, si sono voluti cancellare i "luoghi della vergogna", modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!", cori di "Benvenuti ad Auschwitz".

Dov'era il famigerato "ufficio matricole" c'è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l'ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l'ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo).

A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: "Allora, non li vuoi vedere tanto presto...". A un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H. T. chiede l'avvocato. Minacciano di "tagliarle la gola". M. D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni "per accertare la presenza di oggetti nelle cavità".

Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di permanenza nella struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le "posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa". La "posizione del cigno" - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola". Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella "posizione della ballerina", in punta di piedi.

Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato "entro stasera vi scoperemo tutte"; agli uomini, "sei un gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la polizia penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza.

A. D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella "posizione della ballerina". Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l'altro piede". Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda". C'è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi.

Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?". S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia, devi fare pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte". S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". J. S., lo ustionano con un accendino.

Ogni trasferimento ha la sua "posizione vessatoria di transito", con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.

In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone". Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni.

P. B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: "E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci". Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano per "divertirsi" un po'.

Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta. L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la insultano ("troia", "puttana"), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace il manganello".

Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato "strattonato e spinto".

Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con "questo è pronto per la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di "trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, "indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.

A L. K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un'iniezione. Chiede: "Che cos'è?". Il medico risponde: "Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due "fino all'osso". G. A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede "qualcosa". Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare.

Per i pubblici ministeri, "i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".

Non c'è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell'estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un'osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l'indifferenza dell'opinione pubblica, l'apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto.

Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la "dimensione dell'umano" di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l'etica, con l'identica allergia alla coerenza"?

(La Repubblica, 17 marzo 2008)

Il 70% dei poveri al mondo è donna

Action Aid ha presentato il suo primo rapporto sui diritti delle donne

Foto: Brent Stirton, South Africa, Getty Images/RPM for UNOHA - Former “bushwife”, Sierra Leone (World Press Photo Contest 2003 - Portraits - 1st prize singles)

“La discriminazione nei confronti delle donne è una delle principali cause della povertà estrema: fino a quando i diritti delle donne non saranno riconosciuti dalle istituzioni come centrali per il perseguimento di programmi di sviluppo sostenibili ed efficaci e le discriminazioni di genere non verranno assunte come elementi di comprensione irrinunciabile delle realtà locali in cui si opera, non ci saranno passi avanti significativi nella lotta alla povertà”. Questo il messaggio principale che ActionAid lancia in occasione della presentazione del suo primo rapporto sul tema dei diritti delle donne “La dimensione di genere nella cooperazione allo sviluppo”, svolto in collaborazione con il CIRPS-Sped (Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo sostenibile), Università “Sapienza” di Roma.

Dati e statistiche – spiega ActionAid - parlano chiaro: sono le donne a subire le conseguenze più severe di povertà, analfabetismo, guerre e ad essere le vittime dei più odiosi abusi dei diritti umani. Spesso per il solo fatto di essere donne.

Le donne costituiscono il 70% della popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno.
Due terzi degli analfabeti al mondo sono donne.
L'80% dei 35 milioni di profughi al mondo sono donne.
130 milioni di donne hanno subito mutilazioni genitali.
In 192 paesi del mondo i capi di Stato donna sono soltanto 13 e a gennaio 2007 le donne rappresentavano solo il 17% del totale dei deputati a livello globale.

“Contrastare disuguaglianza, violenza e pregiudizio – spiega ActionAid - significa rilevare queste differenze, dare loro una dimensione quantitativa e qualitativa e infine intervenire perché le discriminazioni non si riproducano, creando le condizioni per il cambiamento”. Senza un intervento deciso della politica in questa direzione, anche i risultati della cooperazione internazionale rischiano di essere illusori.

La cooperazione internazionale – conclude ActionAid nel rapporto sui diritti delle donne – si deve impegnare per la piena partecipazione delle donne nei processi decisionali a livello locale nazionale ed internazionale e per la trasformazione delle strutture sociali, economiche e politiche che oggi sono responsabili delle discriminazioni di genere. L'empowerment delle donne deve essere la chiave di volta degli interventi di una cooperazione che non si accontenti di misure a tutela delle donne o al loro mero coinvolgimento tra i beneficiari.

(Fonte: Vita.it, 08/03/2008)

Me llaman calle

(by Manu Chao)

Me llaman calle, pisando baldosas,
la revoltosa y tan perdida.
Me llaman calle,
calle de noche, calle de día.
Me llaman calle,
hoy tan cansada, hoy tan vacía,
como maquinita por la gran ciudad.

Me llaman calle, me subo a tu coche,
me llaman calle de malegría.
calle dolida, calle cansada de tanto amar.

Voy calle abajo, voy calle arriba,
no me rebajo ni por la vida.
Me llaman calle y ese es mi orgullo,
yo sé que un día llegará,
yo sé que un día vendrá mi suerte,
un día me vendrá a buscar
a la salida un hombre bueno
pa to la vida y sin pagar
mi corazón no es de alquilar.

Me llaman calle, me llaman calle
calle sufrida, calle tristeza de tanto amar.
Me llaman calle, calle más calle.

Me llaman calle siempre atrevida
me llaman calle de esquina a esquina.
Me llaman calle, bala perdida
asi me disparó la vida.
Me llaman calle del desengaño
calle fracaso, calle perdida.

Me llaman calle, vas sin futuro
Me llaman calle, va sin salida
Me llaman calle, calle más calle
la que mujeres de la vida
suben pa bajo, bajan pa arriba
como maquinita por la gran ciudad.

Me llaman calle, me llaman calle
calle sufrida, calle tristeza de tanto amar
Me llaman calle, calle más calle.

Me llaman siempre y a cualquier hora,
me llaman guapa siempre a deshora,
me llaman puta también princesa
me llaman calle sin nobleza.
Me llaman calle, calle sufrida,
calle perdida de tanto amar.

Me llaman calle, me llaman calle
calle sufrida, calle tristeza de tanto amar.

A la Puri, a la Carmen, Carolina, Bibiana, Pereira, Marta, Marga,
Heidi, Marcela, Jenny, Tatiana, Rudy, Mónica, María, María...

Cucimondo

Corso di cucina internazionale.

Dieci serate per imparare con
COOPI piatti tipici e tradizioni del Sud del mondo



La solidarietà ai fornelli, per raccontare altre culture. Cucimondo è l’iniziativa di COOPI che unisce persone, cibi e differenti aree geografiche in un corso di cucina internazionale.

A partire dal 28 febbraio 2008, ogni giovedì sera un rappresentante di un paese diverso spiegherà come preparare i piatti tipici della sua regione, cucinando insieme ai partecipanti del corso e raccontando aneddoti e storie legate alla pietanza e alle proprie tradizioni.

A insegnare passo per passo la preparazione dei cibi non saranno cuochi professionisti, ma uomini e donne amanti della cucina delle loro origini, felici di raccontare esperienze e condividere abitudini. Alla fine di ogni lezione si assaggeranno i piatti preparati e si riceveranno delle dispense con le ricette, l’elenco degli strumenti utili e una breve scheda sul paese.

Tra febbraio e maggio, Cucimondo porterà in tavola Pakistan, Tunisia, Romania, Senegal, Messico, Uzbekistan, Iran, Perù, Brasile, Marocco. Un’ultima lezione, fuori corso, sarà invece dedicata al Giappone.

Cucina internazionale ma anche solidale, per avvicinarsi ad altre realtà e contribuire allo sviluppo del Sud del mondo. L’incasso del corso servirà a finanziare il progetto di COOPI in Sierra Leone, per il recupero dei bambini soldato e di giovani donne, vittime di violenza e schiavitù durante la guerra (http://www.coopi.org/sierraleone/index.html).

Cucimondo - Corso di cucina internazionale Dal 28 febbraio al 22 maggio 2008,
ogni giovedì dalle 20.00 alle 22.00

presso l’Ambasciata Britannica
Via XX Settembre 80 A (Porta Pia), Roma

Costo del corso:
150€ per 10 lezioni, oppure 20€ per ogni singola lezione. Serata Giappone: 20 €

Per informazioni e iscrizioni (ogni lezione va prenotata entro il giorno prima):
Elena
- edallamassara@yahoo.com


COOPI-Cooperazione Internazionale è un’associazione indipendente che lotta contro la povertà e le ingiustizie sociali per costruire un mondo di pace e giustizia. In quarant’anni ha realizzato oltre 700 interventi in circa 50 paesi in Africa, America Latina, Asia Centrale, Medio Oriente e Balcani per promuovere l’accesso all’acqua e il diritto alla salute e all’istruzione delle comunità più povere. In Italia COOPI realizza iniziative per favorire la conoscenza e lo scambio tra le diverse culture. Da settembre 2007 ha aperto una sede regionale a Roma, COOPI Lazio.