Satyagraha

"Per me la vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un bambino. Sarei restio ad ammazzare un agnello per sostenere il corpo umano. Trovo che più una creatura è indifesa, più ha il diritto ad essere protetta dall'uomo dalla crudeltà degli altri uomini."
M. K. Gandhi

In questi giorni, come ogni anno, migliaia e migliaia di agnelli sono stati massacrati per fornire l'arrosto di pasqua... Penso che la citazione appena scritta sia una delle migliori per ricordare Gandhi, a sessant'anni esatti dalla sua uccisione.

Non so parlare molto del suo ruolo strettamente politico, che pure fu importantissimo e condusse l'India all'indipendenza. A me Gandhi piace ricordarlo per il suo messaggio spirituale, perché credo che questo sia il lascito più importante che fece al mondo intero. E del resto lui stesso considerava tutta la sua attività politica e sociale come uno strumento per la diffusione della verità e della giustizia tra tutti gli esseri viventi.

Verso la fine della sua vita un giornalista occidentale gli domandò frettolosamente quale fosse il suo messaggio per il mondo. Gandhi rimase colpito dalla domanda e dal suo stile, così brutalmente diretto e semplicistico. Stette in silenzio per pochi secondi, e poi rispose a testa china, umilmente e candidamente: "La mia vita è il mio messaggio per il mondo"...
Come si chiedeva Tiziano Terzani commentando questo fatto, quanti uomini politici oggi potrebbero rispondere così?

Qual è stata quindi la vita di quest'uomo, una vita così esemplare da essere in se stessa un messaggio? Io penso che la vita del Mahatma ("grande anima", come lo designò il poeta indiano bengalese Tagore, dopo il loro incontro) sia stata quella di un uomo che scelse di incarnare perfettamente l'ideale della non-violenza. In realtà, a ben guardare, non c'è altro nella sua vita. Non c'è che la non-violenza.

Ma se si vuole capire veramente Gandhi e il suo "messaggio al mondo", bisogna dire e pensare "non-violenza" esattamente come lo faceva lui. E lui è stato il primo uomo ad aver trovato un modo semantico positivo per esprimere un concetto negativo. La non-violenza, il glorioso ideale di tutta la tradizione spirituale "eretica" indiana, dal Buddha e da Mahavira in poi, ossia l'"ahimsa" ("a" è la particella negativa corrispondente a "non", "himsa" significa "violenza" in sanscrito), lui la trasforma in "satyagraha", ovvero "la forza della verità", qualcosa di positivo da affermare con forza nel mondo. Qualcosa per cui vivere.

Gandhi dunque credeva che esistesse una verità. Credeva che questa verità fosse la legge della fratellanza e dell'amore verso tutti gli esseri. E che il modo in cui questa verità si manifestasse nel mondo fosse la giustizia. Ed era convinto che ogni uomo fosse tenuto a comportarsi secondo questa verità, e a battersi perché questa stessa verità prevalesse nel mondo. Ovunque, e presso tutti gli esseri senzienti, animali compresi. Nient'altro che questo va cercato, credo, se si vuole capire il "messaggio" di Gandhi per il mondo. Nient'altro che la "forza della verità".

Le battaglie politiche erano solo il modo principale che lui aveva scelto per portare avanti la sua lotta personale perché la "verità" si manifestasse nel mondo. In uno dei suoi scritti confessò di considerare l'intera sua vita come "un esperimento con la Verità", in un senso simile, forse, a quello con cui Leonardo da Vinci consacrò la propria vita agli esperimenti sulla natura e le sue leggi.
Ma anche il suo essere vegetariano era satyagraha, era comportarsi in modo tale da sostenere la verità, da farle breccia nel mondo. I suoi digiuni di protesta contro le violenze erano satyagraha. Il suo vestirsi di cotone grezzo bianco era satyagraha, perché il cotone l'aveva filato lui stesso, e questo era simbolo di autogoverno dell'India e di boicottaggio al colonialismo straniero e alle importazioni forzate. E di semplicità contadina. I suoi giorni di silenzio obbligatorio era satyagraha, perché boicottava il rumore concedendo pace al suo animo e permettendo così alla verità di possederlo pienamente.

Una cosa che raramente si sente ricordare, è che Gandhi in realtà aspirava a un'indipendenza per l'India che andasse molto al di là di quella politica dalla Gran Bretagna. Voleva che il suo paese ritrovasse le proprie radici spirituali, che praticasse la satyagraha, che tornasse all'autogoverno agricolo dei villaggi rurali boicottando lo sviluppo industriale. Voleva che l'India raggiungesse l'indipendenza non soltanto dal colonialismo occidentale, ma anche dal modo di pensare e di vivere occidentale.

Sul finire della sua vita, prima che fosse ucciso da un fanatico indù, Gandhi soffrì molto a vedere il suo paese smembrarsi violentemente in 2 stati, e per motivi religiosi oltretutto. Era la fine del suo sogno di armonia e fratellanza tra musulmani e indù in un'unica patria. Forse fu un bene che la morte gli risparmiò almeno l'altra grande delusione: quella di assistere allo spettacolo di un paese portato a tutta velocità sulla stessa strada che i colonialisti appena vinti avevano tentato per 3 secoli di fargli prendere, cioè lo sviluppo industriale. Nehru, il suo figlioccio prediletto, e gli altri suoi collaboratori, avrebbero presto tentato - e sarebbero in parte riusciti nell'intento - di trasformare l'India in una Europa equatoriale.

La sera prima di quella in cui fu ucciso, disse ai suoi che se fosse morto per causa di una pallottola esplosa da qualcuno dei suoi "fratelli" e nondimeno lo avesse in quel momento perdonato, giungendo le mani al modo indiano e pronunciando il nome di dio, allora e solo allora avrebbe potuto considerare sé stesso una persona integra e coerente. Il giorno dopo, la sera del 30 gennaio 1948, nel ricevere la folla dei suoi ammiratori dopo le preghiere serali, Gandhi cadeva a terra sotto i colpi della Beretta (pochi sanno che l'arma era una pistola di marca italiana... e la Beretta in Lombardia chiuse per lutto pochi giorni dopo la morte del Mahatma) del fanatico indù Nathuram Godse giungendo le mani, e invocando il suo dio: "He Ram" furono le sue ultime parole. "Oh Dio!".

(by Francesco)

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