Contro Facebook

(di TOM HODGKINSON, The Guardian, UK - 14/01/2008)

Facebook ha 59 milioni di utenti - e due milioni di nuovi iscritti ogni settimana. Ma tra questi non troverete Tom Hodgkinson che rilascia volontariamente i propri dati personali; non ora che conosce la politica delle persone che stanno dietro questo sito di social networking.

Io disprezzo Facebook. Questa azienda statunitense di enorme successo si descrive come «un servizio che ti mette in contatto con la gente che ti sta intorno». Ma fermiamoci un attimo. Perché mai avrei bisogno di un computer per mettermi in contatto con la gente che mi sta intorno? Perché le mie relazioni sociali debbono essere mediate dalla fantasia di un manipolo di smanettoni informatici in California? Che ha di male il baretto?

E poi, Facebook mette davvero in contatto la gente? Non è vero invece che ci separa l'uno dall'altro, dal momento che invece di fare qualcosa di piacevole come mangiare, parlare, ballare e bere coi miei amici, mando loro soltanto dei messaggini sgrammaticati e foto divertenti nel ciberspazio, inchiodato alla scrivania? Un mio amico poco tempo fa mi ha detto di aver trascorso un sabato notte a casa da solo su Facebook, bevendo seduto alla sua scrivania. Che immagine deprimente. Altro che mettere in contatto la gente, Facebook ci isola, fermi nel posto di lavoro.

Per di più, Facebook fa leva, per così dire, sulla nostra vanità e autostima. Se carico una mia foto che ritrae il mio profilo migliore, e assieme metto una lista delle cose che mi piacciono, posso costruire una rappresentazione artificiale di me stesso, con lo scopo di essere sessualmente attraente e di guadagnarmi l'altrui approvazione. («Mi piace Facebook», mi ha detto un altro amico. «Mi ha fatto trombare»). Incoraggia inoltre una inquietante competitività intorno all'amicizia: sembra che nell'amicizia oggi conti la quantità, e la qualità non sia affatto considerata. Più amici hai, meglio sei. Sei "popolare", nel senso che i liceali statunitensi amano tanto. A riprova di ciò sta la copertina della nuova rivista su Facebook dell'editore Dennis Publishing: «Come raddoppiare la tua lista di amici».

Sembra, però, che io sia piuttosto solo nella mia ostilità. Mentre scriviamo, Facebook sostiene di avere 59 milioni di utenti attivi, compresi 7 milioni dal Regno Unito, la terza nazione per numero di clienti dopo gli Usa e il Canada. Cinquantanove milioni di babbei, che hanno dato tutti volontariamente le informazioni della propria carta d'identità e le proprie scelte di consumatore a un'azienda statunitense che non conoscono. Due milioni di persone si iscrivono ogni settimana. Se proseguirà all'attuale volume di crescita, Facebook supererà i 200 milioni di utenti attivi nello stesso periodo dell'anno prossimo. E personalmente prevedo che, anzi, il suo volume di crescita subirà un'accelerazione nei mesi venturi. Come ha dichiarato il portavoce di Facebook Chris Hughes: «[Facebook] ha raggiunto una tale integrazione che è difficile sbarazzarsene».


Tutto ciò sarebbe sufficiente a farmi rifiutare Facebook per sempre. Ma ci sono altre ragioni per odiarlo. Molte altre ragioni.

Facebook è un progetto ben foraggiato, e le persone che stanno dietro il finanziamento, un gruppo di capitalisti "di rischio" della Silicon Valley, hanno un'ideologia ben congegnata che sperano di diffondere in tutto il mondo. Facebook è una delle manifestazioni di questa ideologia. Come Paypal prima di esso, è un esperimento sociale, un'espressione di un particolare tipo di liberalismo neoconservatore. Su Facebook puoi essere libero di essere chi vuoi, a patto che non ti dia fastidio essere bombardato da pubblicità delle marche più famose al mondo. Come con Paypal, i confini nazionali sono una cosa ormai obsoleta.

Malgrado il progetto sia stato concepito inizialmente dalla star da copertina Mark Zuckerberg, il vero volto che sta dietro Facebook è il quarantenne venture capitalist della Silicon Valley e filosofo "futurista" Peter Thiel. Ci sono soltanto tre consiglieri di amministrazione per Facebook, e sono Thiel, Zuckerberg e un terzo investitore che si chiama Jim Breyer, che proviene da un'azienda di venture capital, la Accel Partners (di lui parleremo più avanti). Thiel investì 500 mila dollari in Facebook quando gli studenti di Harvard Zuckerberg, Chris Hughes e Dustin Moskowitz lo incontrarono a San Francisco nel giugno del 2004, non appena fecero partire il sito.

Thiel, secondo la stampa, oggi possiede il 7 per cento di Facebook, quota che, secondo l'attuale stima del valore dell'azienda di 15 miliardi di dollari, vale più di un miliardo. Chi siano esattamente i cofondatori originali di Facebook è controverso, ma chiunque siano, Zuckerberg è l'unico rimasto nel consiglio d'amministrazione, malgrado Hughes e Moskowitz lavorino ancora per l'azienda. Thiel è considerato da molti nella Silicon Valley e nel mondo del venture capital a stelle e strisce come un genio del liberismo. È il cofondatore e amministratore delegato del sistema bancario virtuale Paypal, che vendette a Ebay per un miliardo e mezzo di dollari, tenendo per sé 55 milioni. Gestisce anche un hedge fund da 3 miliardi di euro, il Clarium Capital Management, e un fondo di venture capital, Founders Fund. La rivista Bloomberg Markets l'ha recentemente descritto come «uno dei manager di hedge fund più di successo del paese». Ha fatto i soldi scommettendo sul rialzo del prezzo del petrolio e azzeccando la previsione che il dollaro si sarebbe indebolito. Lui e i suoi straricchi compagni della Silicon Valley sono stati recentemente etichettati come "La mafia di Paypal" dalla rivista Fortune, il cui cronista ha notato anche che Thiel ha un maggiordomo in livrea e una supercar della McLaren da 500 mila dollari. Thiel è anche un campione di scacchi ed ama la competizione. Si dice che una volta dopo aver perso una partita, in un accesso d'ira, abbia gettato a terra tutte le pedine. E non si scusa per la sua iper-competitività: «Un buon perdente resta sempre un perdente».

Ma Thiel è più di un semplice capitalista scaltro e avido. Infatti è anche un filosofo "futurista" e un attivista neocon. Filosofo laureato a Stanford, nel 1998 fu tra gli autori del libro The Diversity Myth [Il Mito della Diversità, ndt], un attacco dettagliato all'ideologia multiculturalista e liberal che dominava Stanford. In questo libro sosteneva che la "multicultura" portava con sé una diminuzione delle libertà personali. Da studente di Stanford, Thiel fondò un giornale destrorso, che esiste ancora, la Stanford Review, il cui motto è Fiat Lux ("Sia la luce"). Thiel è membro di TheVanguard.org, un gruppo di pressione neoconservatore basato su internet, nato per attaccare MoveOn.org, gruppo di pressione liberal attivo sul web. Thiel si dichiara «estremamente libertario».

TheVanguard è gestito da un certo Rod D. Martin, capitalista-filosofo molto ammirato da Thiel. Sul sito, Thiel dice: «Rod è una delle menti di spicco nel nostro paese per quanto riguarda la creazione di nuove e necessarie idee sulle politiche pubbliche. Ha una comprensione dell'America più completa di quella che hanno della propria azienda molti amministratori delegati».

Il piccolo assaggio che segue, preso dal loro sito, vi darà l'idea della loro visione del mondo: «TheVanguard.org è una comunità online che crede nei valori conservatori, nel libero mercato e nella limitazione del governo come gli strumenti migliori per portare speranza e opportunità sempre maggiori per tutti, specie per i più poveri fra noi». Il loro scopo è quello di promuovere linee politiche che «diano nuova forma all'America e al mondo intero». TheVanguard descrive le proprie politiche come «reaganiane-thatcheriane». Il messaggio del presidente recita così: «Oggi daremo a MoveOn [il sito liberal], a Hillary e ai media di sinistra una lezione che non si aspetterebbero mai».

Non ci sono dubbi sulle idee politiche di Thiel. Ma qual è la sua filosofia? Sono andato ad ascoltarmi, in un podcast, un discorso di Thiel circa le sue idee sul futuro. La sua filosofia, in breve, è questa: fin dal XVII secolo, alcuni pensatori illuminati hanno strappato il mondo dalla sua antiquata vita legata alla natura - e qui cita la famosa descrizione fatta da Thomas Hobbes della vita come «meschina, brutale e breve» - per portarlo verso un nuovo mondo virtuale nel quale la natura è conquistata. Il valore è ora assegnato alle cose immaginarie. Thiel afferma che PayPal è nato proprio da questa credenza: che si possa trovare valore non in oggetti concreti fatti da mano d'uomo, ma in relazioni fra esseri umani. Paypal è un modo di spostare denaro in giro per il mondo senza limitazioni. Bloomberg Markets la pone così: «Per Thiel, PayPal significa libertà: permetterebbe alla gente di scansare i controlli sulla valuta e spostare denaro in giro per il mondo».

Chiaramente, Facebook è un altro esperimento iper-capitalista: si possono ricavare soldi dall'amicizia? Si possono creare comunità libere dai confini nazionali, e poi vendere loro Coca Cola? Facebook non è per niente creativo. Non produce assolutamente nulla. Tutto quello che fa è mediare relazioni che si sarebbero allacciate in ogni caso.

Il mentore filosofico di Thiel è un certo René Girard dell'università di Stanford, ideatore di una teoria del comportamento umano chiamata "desiderio mimetico". Girard ritiene che le persone siano essenzialmente come pecore e si imitino l'una con l'altra senza pensarci troppo su. La teoria sembra essere provata anche nel caso dei mondi virtuali di Thiel: l'oggetto desiderato è irrilevante; è sufficiente soltanto che gli esseri umani abbiamo la tendenza a muoversi in greggi. Da qui derivano le bolle finanziarie. Da qui deriva l'enorme popolarità di Facebook. Girard è un habitué delle serate intellettuali di Thiel. Tra l'altro, una cosa che non potrete trovare nella filosofia di Thiel sono gli antiquati concetti che appartengono al mondo reale, come Arte, Bellezza, Amore, Piacere e Verità.

Internet è un'immensa attrattiva per i neocon come Thiel, perché promette, in un certo senso, libertà nelle relazioni umane e negli affari, libertà dalle noiose leggi nazionali, dai confini nazionali e da altre cose di questo genere. Internet apre un mondo di espansione per il libero mercato e per il laissez-faire. Thiel sembra approvare anche i paradisi fiscali offshore, e sostiene che il 40 per cento della ricchezza mondiale si trova in posti come Vanuatu, le isole Cayman, Monaco e le Barbados. Penso sia giusto dire che Thiel, come Rupert Murdoch, è contrario alle tasse. Gli piace anche la globalizzazione della cultura digitale, perché rende quasi inattaccabili i padroni delle banche: «I lavoratori non possono fare una rivoluzione per impossessarsi di una banca, se quella banca ha sede a Vanuatu», dice.

Se la vita del passato era meschina, brutale e breve, Thiel vuole rendere la vita del futuro molto più lunga, investendo a questo fine in un'azienda che esplora tecnologie per allungare la vita. Ha promesso tre milioni e mezzo di sterline a un gerontologo di Cambridge, Aubrey de Grey, che sta cercando la chiave dell'immortalità. Thiel è anche membro del collegio dei consulenti di qualcosa come il Singularity Institute for Artificial Intelligence. Nel suo fantastico sito internet, si trovano le seguenti parole: «La Singularity è la creazione tecnologica di un'intelligenza superiore a quella umana. Ci sono parecchie tecnologie [...] che vanno in questa direzione [...] l'Intelligenza Artificiale [...] interfacce che collegano direttamente computer e cervello [...] ingegneria genetica [...] differenti tecnologie che, se raggiungessero una certa soglia di complessità, permetterebbero la creazione di un'intelligenza superiore a quella umana».

Per sua stessa ammissione, quindi, Thiel sta cercando di distruggere il mondo reale, da lui chiamato anche "natura", e di installare al suo posto un mondo virtuale. Ed è in questo contesto che dobbiamo vedere il successo di Facebook. Facebook è un esperimento volto deliberatamente alla manipolazione mondiale, e Thiel è un brillante personaggio del pantheon neoconservatore con un debole per incredibili fantasie "tecno-utopiche". E io non voglio aiutarlo a diventare più ricco.

Il terzo membro del consiglio di amministrazione di Facebook è Jim Breyer. È parte della ditta di venture capital Accel Partners, che ha messo 12 milioni e 700 mila dollari per il progetto Facebook nell'aprile 2005. Oltre a essere membro di questi giganti statunitensi, della stessa caratura di Wal-Mart e Marvel Entertainment, è anche ex presidente della National Venture Capital Association (NVCA). Sono queste le persone che hanno successo in America, perché investono in nuovi e giovani talenti, come Zuckerberg. La più recente raccolta di finanziamenti di Facebook fu portata avanti da un'azienda, la Greylock Venture Capital, che fornì 27 milioni 500 mila dollari. Uno dei più vecchi soci di Greylock è Howard Cox, altro ex presidente della NVCA, e membro del CdA di In-Q-Tel. Che cos'è In-Q-Tel? Beh, che ci crediate o no (andatevi a vedere il suo sito), è la costola della Cia nel capitale di rischio. Dopo l'Undici Settembre, la comunità dei servizi segreti Usa divenne così entusiasta delle possibilità della nuova tecnologia e delle innovazioni del settore privato, che nel 1999 costituì il proprio fondo di capitale di rischio, l'In-Q-Tel, che «identifica e collabora con le aziende che sviluppano tecnologie all'avanguardia, per aiutare a rilasciare questi ritrovati alla Central Intelligence Agency e alla più vasta US Intelligence Community (IC) al fine di promuovere la loro missione»*.

Il dipartimento della difesa statunitense e la Cia amano la tecnologia perché rende lo spionaggio più facile. «Abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per dissuadere i nuovi avversari», disse nel 2003 il segretario della Difesa Donald Rumsfeld. «Dobbiamo fare il salto nell'era dell'informatica, che costituisce le fondamenta essenziali dei nostri sforzi di cambiamento». Il primo presidente di In-Q-Tel fu Gilman Louie, che sedette nel CdA di NVCA assieme a Breyer. Un'altra figura chiave nel team di In-Q-Tel è Anita K. Jones, ex direttrice della sezione ricerca e ingegneria del dipartimento della Difesa, e, assieme a Breyer, membro del CdA di BBN Technologies. Quando abbandonò il dipartimento della Difesa, il senatore Chuck Robb le fece questo omaggio: «Lei ha unito tecnologia e comunità militari operative per dare vita a piani dettagliati con il fine di sostenere il dominio Usa sui campi di battaglia del prossimo secolo».

Ora, anche se non si accetta l'idea che Facebook sia una specie di estensione del programma imperialistico statunitense incrociata con uno strumento per raccogliere immense quantità d'informazioni, non si può in nessun modo negare che, come affare, sia davvero geniale. Qualche smanettone online ha fatto intendere che la sua valutazione di 15 miliardi di dollari sia eccessiva, ma io direi semmai che è troppo contenuta. La sua grandezza dà le vertigini, e il potenziale di crescita è virtualmente infinito. «Vogliamo che tutti siano in grado di usare Facebook», dice l'impersonale voce del Grande Fratello sul sito. E penso proprio che lo faranno. È l'enorme potenziale di Facebook che spinse Microsoft a comprarne l'1,6 per cento per 240 milioni di dollari. Recentemente circolano voci secondo cui un investitore asiatico, Lee Ka-Shing, il nono uomo più ricco della terra, abbia comprato lo 0,4 per cento di Facebook per 60 milioni di dollari.

I creatori del sito non fanno altro che giocherellare col programma. In genere, stanno seduti con le mani in mano a guardare milioni di "drogati" di Facebook fornire di spontanea volontà i dettagli della loro carta d'identità, le loro foto e la lista dei loro oggetti di consumo preferiti. Ricevuto questo smisurato database di esseri umani, Facebook vende semplicemente le informazioni agli inserzionisti, o, come ha detto Zuckerberg in uno degli ultimi post sul blog, «cerca di aiutare le persone a condividere informazioni con i loro amici riguardo alle cose che fanno sul web». Ed è infatti proprio ciò che accade. Il 6 novembre dello scorso anno, Facebook annunciò che 12 marchi mondiali erano saliti a bordo. Tra essi, c'erano Coca Cola, Blockbuster, Verizon, Sony Pictures e Condé Nast. Ben allenati in stronzate da marketing di altissimo livello, i loro rappresentanti gongolavano con commenti come questo:

«Con Facebook Ads, i nostri marchi possono diventare parte del modo di comunicare e interagire degli utenti su Facebook», disse Carol Kruse vicepresidente della sezione marketing interattivo globale, gruppo Coca Cola.

«È un modo innovativo di far nascere e crescere relazioni con milioni di utenti di Facebook permettendo loro di interagire con Blockbuster in maniera conveniente, pertinente e divertente», disse Jim Keyes, presidente e amministratore delegato di Blockbuster. «Ciò va al di là della creazione di pubblicità efficaci. Si tratta piuttosto della partecipazione di Blockbuster alla comunità dei consumatori, cosicché, in cambio, i consumatori si sentano motivati a condividere i vantaggi del nostro marchio con gli amici».

"Condividere" è la parola in lingua di Facebook che sta per "pubblicizzare". Chi si registra a Facebook diventa un girovago che parla delle reclame di Blockbuster o della Coca Cola, e tesse le lodi di questi marchi agli amici. Stiamo assistendo alla mercificazione delle relazioni umane, l'estrazione di valore capitalistico dall'amicizia.

Ora, in confronto a Facebook, i giornali, per esempio, come modello d'impresa, sembrano disperatamente fuori moda. Un giornale vende spazi pubblicitari alle imprese che cercano di vendere la loro roba ai lettori. Un sistema che è però molto meno complesso di quello di Facebook. E questo per due ragioni. La prima è che i giornali debbono sopportare fastidiose spese per pagare i giornalisti che forniscono contenuti. Facebook, invece, i contenuti li ha gratis. La secondo è che Facebook può calibrare la pubblicità con una precisione infinitamente superiore rispetto a un giornale. Se, per esempio, si dice su Facebook di amare il film This Is Spinal Tap, quando uscirà nei cinema un film simile, state pur sicuri che vi terranno informati. Mandandovi la pubblicità.

È vero che Facebook ultimamente è stato nell'occhio del ciclone per il suo programma di pubblicità Beacon. Agli utenti veniva recapitato un messaggio che diceva che i loro amici avevano fatto acquisti in un certo negozio online. Furono 46 mila gli utenti a reputare questo tipo di pubblicità troppo invasiva, tanto che giunsero a firmare una petizione dal titolo «Facebook, smettila di invadere la mia privacy!». Zuckerberg si scusò nel blog aziendale, scrivendo che il sistema era ora cambiato da "opt out" [1] a "opt in" [2]. Io ho il sospetto però che questa piccola ribellione per essere stati così spietatamente mercificati sarà presto dimenticata: dopotutto, ci fu un'ondata di protesta nazionale da parte del movimento delle libertà civili quando si dibattè nel Regno Unito l'idea di una forza di polizia a metà del XIX secolo.

E per di più, voi utenti di Facebook avete mai letto davvero l'informativa sulla privacy? Ti dice che non è che di privacy ne hai poi molta. Facebook fa finta di essere un luogo di libertà, ma in realtà è più simile a un regime totalitario virtuale mosso dall'ideologia, con una popolazione che molto presto sarà superiore a quella del Regno Unito. Thiel e gli altri hanno dato vita al loro paese, un paese di consumatori.

Ora, voi, come Thiel e gli altri nuovi signori del ciberuniverso, potreste reputare questo esperimento sociale tremendamente eccitante. Ecco qui finalmente lo Stato illuminista desiderato ardentemente fin dal tempo in cui i Puritani, nel XVII secolo salparono verso l'America del Nord. Un mondo dove tutti sono liberi di esprimersi come vogliono, a seconda di chi li sta guardando. I confini nazionali sono un'anticaglia. Tutti ora fanno capriole insieme in uno spazio virtuale dove ci si può esprimere a ruota libera. La natura è stata conquistata attraverso l'illimitata ingegnosità umana. E voi potreste decidere di inviare a quel geniale investitore di Thiel tutti i vostri soldi, aspettando con impazienza la quotazione ufficiale dell'inarrestabile Facebook.

O, in alternativa, potreste riflettere e rifiutare di essere parte di questo ben foraggiato programma, volto a creare un'arida repubblica virtuale, dove voi stessi e le vostre relazioni con gli amici siete convertiti in merce da vendere ai colossi multinazionali. Potreste decidere di non essere parte di questa Opa contro il mondo.

Per quanto mi riguarda, rifuggirò Facebook, rimarrò scollegato il più possibile, e trascorrerò il tempo che ho risparmiato non andando su Facebook facendo qualcosa di utile, come leggere un libro. Perché sprecare il mio tempo su Facebook quando non ho ancora letto l'Endimione di Keats? Quando devo piantare semi nel mio orto? Non voglio rifuggire la natura, anzi, mi ci voglio ricollegare. Al diavolo l'aria condizionata! E se avessi voglia di mettermi in contatto con la gente intorno a me, tornerei a usare un'antica tecnologia. È gratis, è facile da usare e ti permette un'esperienza di condivisione di informazioni senza pari: è la parola.



L'informativa sulla privacy di Facebook


Per farvi quattro risate, provate a sostituire le parole "Grande Fratello" dove compare la parola "Facebook"


1 Ti recapiteremo pubblicità


«L'uso di Facebook ti dà la possibilità di stabilire un tuo profilo personale, instaurare relazioni, mandare messaggi, fare ricerche e domande, formare gruppi, organizzare eventi, aggiungere applicazioni e trasmettere informazioni attraverso vari canali. Noi raccogliamo queste informazioni al fine di poterti fornire servizi personalizzati»


2 Non puoi cancellare niente


«Quando aggiorni le informazioni, noi facciamo una copia di backup della versione precedente dei tuoi dati, e la conserviamo per un periodo di tempo ragionevole per permetterti di ritornare alla versione precedente»


3 Tutti possono dare un'occhiata alle tue intime confessioni


« [...] e non possiamo garantire - e non lo garantiamo - che i contenuti da te postati sul sito non siano visionati da persone non autorizzate. Non siamo responsabili dell'elusione di preferenze sulla privacy o di misure di sicurezza contenute nel sito. Sii al corrente del fatto che, anche dopo la cancellazione, copie dei contenuti da te forniti potrebbero rimanere visibili in pagine d'archivio e di memoria cache e anche da altri utenti che li abbiano copiati e messi da parte nel proprio pc».


4 Il tuo profilo di marketing fatto da noi sarà imbattibile


«Facebook potrebbe inoltre raccogliere informazioni su di te da altre fonti, come giornali, blog, servizi di instant messaging, e altri utenti di Facebook attraverso le operazioni del servizio che forniamo (ad esempio, le photo tag) al fine di fornirti informazioni più utili e un'esperienza più personalizzata».


5 Scegliere di non ricevere più notifiche non significa non ricevere più notifiche


«Facebook si riserva il diritto di mandarti notifiche circa il tuo account anche se hai scelto di non ricevere più notifiche via mail»


6 La Cia potrebbe dare un'occhiata alla tua roba quando ne ha voglia


«Scegliendo di usare Facebook, dai il consenso al trasferimento e al trattamento dei tuoi dati personali negli Stati Uniti [...] Ci potrebbe venir richiesto di rivelare i tuoi dati in seguito a richieste legali, come citazioni in giudizio od ordini da parte di un tribunale, o in ottemperanza di leggi in vigore. In ogni caso non riveliamo queste informazioni finché non abbiamo una buona fiducia e convinzione che la richiesta di informazioni da parte delle forze dell'ordine o da parte dell'attore della lite soddisfi le norme in vigore. Potremmo altresì condividere account o altre informazioni quando lo riteniamo necessario per osservare gli obblighi di legge, al fine di proteggere i nostri interessi e le nostre proprietà, al fine di scongiurare truffe o altre attività illegali perpetrate per mezzo di Facebook o usando il nome di Facebook, o per scongiurare imminenti lesioni personali. Ciò potrebbe implicare la condivisione di informazioni con altre aziende, legali, agenti o agenzie governative»





*Nota del Redattore: nella versione originale l'articolo è preceduto dalla seguente rettifica:

"La rettifica che segue è stata stampata nella sezione Rettifiche e chiarimenti del Guardian, mercoledì 16 gennaio 2008L'entusiasmo della comunità dei servizi segreti statunitensi per il rinnovamento hi-tech dopo l'Undici Settembre e la creazione dell'In-Q-Tel, il suo fondo di venture capital, nel 1999, sono stati anacronisticamente correlati nell'articolo qui sotto. Dal momento che l'attentato alle Torri Gemelle avvenne nel 2001, non può essere stato ciò che ha portato alla fondazione dell'In-Q-Tel due anni prima."




NOTE DEL TRADUTTORE


[1] Con il termine inglese opt-out (in cui opt è l'abbreviazione di option, opzione) ci si riferisce ad un concetto della comunicazione commerciale diretta (direct marketing), secondo cui il destinatario della comunicazione commerciale non desiderata ha la possibilità di opporsi ad ulteriori invii per il futuro. (fonte: Wikipedia)

[2] Si definisce opt-in il concetto inverso, ovvero la comunicazione commerciale può essere indirizzata soltanto a chi abbia preventivamente manifestato il consenso a riceverla. (fonte: Wikipedia)



Tom Hodgkinson è uno scrittore britannico. Ha collaborato con testate quali 'The Sunday Telegraph', 'The Guardian' e 'The Sunday Times' ed è direttore della rivista 'The Idler'. Hodgkinson è autore di due libri: 'How To Be Idle' ('L'ozio come stile di vita', Rizzoli, 2005) e 'How To Be Free' ('La libertà come stile di vita', Rizzoli, 2007).



Titolo originale: "With friends like these..."



Fonte: The Guardian (ripreso da http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5266)

Costituzione dimenticata

(di Miriam Mafai, da Repubblica.it 06/12/2008)

Giulio Tremonti era noto fino ad oggi come il più rigoroso, persino spietato ministro dell' Economia, tanto da essere soprannominato "signor no". Qualcuno, non solo dell' opposizione ma anche della maggioranza, gli chiedeva di allargare i cordoni della borsa a vantaggio dei pensionati, o dei licenziati, o dei precari? No, non si possono purtroppo sforare le cifre del bilancio, rispondeva il nostro ministro.
La riposta fino a ieri era sempre la stessa: no. «Tagliare, tagliare le spese» era il suo mantra. Crolla il soffitto di una scuola a Rivoli e si scopre che molte altre scuole sono a rischio? Occorrono fondi per mettere le nostre scuole a norma? No, la risposta è sempre no. Il bilancio dello Stato non lo consente.

Eppure ieri, finalmente il ministro Tremonti ha detto sì. Nel giro di un paio d' ore ha trovato i soldi per soddisfare la richiesta che gli è venuta dal Vaticano di aumentare lo stanziamento già fissato in bilancio per le scuole cattoliche. Contro il taglio originario di circa 130 milioni di euro aveva tuonato monsignor Stenco, direttore dell' Ufficio Nazionale della Cei per l' educazione, minacciando una mobilitazione nazionale delle scuole cattoliche contro il governo Berlusconi e il suo ministro delle Finanze.
La minaccia ha avuto ragione delle preoccupazioni del ministro. Nel giro di poche ore il sottosegretario all' economia Giuseppe Vegas, a margine dei lavori della Commissione Bilancio del Senato sulla Finanziaria, rassicurava il rappresentante delle scuole cattoliche. «Abbiamo presentato un emendamento che ripristina il livello originario di finanziamento. Potete stare tranquilli. Dormire non su due ma su quattro cuscini~».

Dunque il taglio previsto in finanziaria non ci sarà. E non ci sarà la minacciata mobilitazione delle scuole cattoliche contro Berlusconi e Tremonti. Soddisfatti, ma solo per ora, i vescovi italiani. Soddisfatto, per ora, il Pontefice che però alza il prezzo e chiede nuove misure «a favore dei genitori per aiutarli nel loro diritto inalienabile di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose».
In parole più semplici, c' è qui la richiesta rivolta allo Stato italiano di smantellare il nostro sistema scolastico a favore della adozione del principio del "bonus" da assegnare ad ogni famiglia, da spendere, a seconda delle preferenze, nella scuola pubblica o nella scuola privata.

Naturalmente nessuno contesta il diritto «inalienabile» delle famiglie di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose. E non ci risulta che nella nostra scuola pubblica si faccia professione di ateismo. E l'insegnamento della religione non è affidato a docenti scelti dai rispettivi Vescovi? Cosa si vuole dunque di più?

Anche a costo di essere indicati come "laicisti" vale la pena di ricordare che l'articolo 33 della nostra Costituzione, ancora in vigore, afferma che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato». E che nel lontano 1964 un governo presieduto da Aldo Moro, venne battuto alla Camera e messo in crisi proprio per aver proposto un modesto finanziamento alle scuole materne private.
Bisognerà dunque aspettare quasi quarant'anni perché un governo e una maggioranza parlamentare prendano in esame la questione delle scuole private e della loro possibile regolamentazione e finanziamento. E saranno il governo D'Alema e il suo ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer a volere, e far approvare, una legge sulla parità scolastica che prevede, ma a precise condizioni, un finanziamento non a tutte le scuole private ma a quelle che verranno riconosciute come «paritarie».

Tutta la materia in realtà, nonostante alcuni provvedimenti presi nel frattempo, è ancora da regolare (non tutte le scuole private, ad esempio, possono essere riconosciute come «paritarie»). Anche per questo, per una certa incertezza della materia, ho trovato per lo meno singolare l'intervento di due autorevoli esponenti del Partito Democratico, a sostegno della richiesta delle gerarchie.
Maria Pia Garavaglia, ministro dell' istruzione del governo ombra del Pd, e Antonio Rusconi, capogruppo del Pd in Commissione Istruzione al Senato hanno subito e con calore dichiarato di apprezzare le rassicurazioni fornite, a nome di Tremonti, dal sottosegretario Vegas. Ma non ne sono ancora soddisfatti. Chiedono di più. Sempre per le private. Chiedono cioè che vengano garantiti «pari diritti agli studenti e alle famiglie» è, quasi con le stesse parole, la rivendicazione già avanzata dalle gerarchie.

Ma è davvero questa, in materia scolastica, la posizione alla quale è giunto il Pd? E se sì, in quale sede è stata presa questa decisione? è giusto chiederselo, è indispensabile saperlo. Anche perché ha ragione chi, come don Macrì, presidente della Federazione che riunisce la scuole cattoliche, lamenta che la strada che porta al bonus trova un ostacolo «nell' articolo 33 della Costituzione che sancisce che le scuole private possono esistere senza oneri per lo Stato».

E allora, che facciamo? Per rispondere alle esigenze delle scuole cattoliche butteremo alle ortiche l'articolo 33 della Costituzione?

La nicotina e la morte delle api

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Se vedete un’ape che muore, preoccupatevi. Albert Einstein disse: “Se l’ape scomparisse, all’uomo resterebbero quattro anni di vita”.
Le api producono miele, pere, mele, pomodori, trifoglio, erba medica, latte, carne. Trasportano il polline e trasformano il mondo in cibo. Le api, un bioindicatore dell’ambiente, sono una specie a rischio. Oggi loro, domani noi. Il Guardian nell’articolo “Honeybee deaths reaching crisis point” riporta che un terzo dei 240.000 alveari britannici è scomparso durante l’inverno e la primavera. Il ministro inglese Rooker ha dichiarato che, se non cambierà nulla, entro dieci anni non ci sarà più un’ape nell’isola. Le api contribuiscono all’economia britannica per 165 milioni di sterline all’anno per la produzione di frutta e verdura. Oltre al miele naturalmente. La Honey Association prevede che il miele locale sarà finito in Gran Bretagna entro Natale. Riapparirà sulle tavole soltanto nell’estate del 2009.
La crisi è mondiale. Il maggior produttore di miele è l’Argentina che ha ridotto del 27% le sue 75.000 tonnellate annue. Negli Stati Uniti (-25% degli alveari nel 2008) e nel resto del mondo le api ci stanno lasciando. In Italia è una strage. Nel 2007 sono morte il 50% delle api, persi 200.000 alveari e 250 milioni di euro nel settore agricolo. Ma non è una priorità. Gli inutili soldati nelle strade, il bavaglio alla Giustizia con la separazione delle carriere, le impronte ai bambini Rom, il lodo Alfano per la messa in sicurezza della banda dei quattro, gli inceneritori della Impregilo. Queste sono priorità!
Perché le api muoiono? Per l’ambiente, il clima, la varoa (un acaro), i pascoli trasformati in coltivazioni di soia per i biocarburanti, per i pesticidi, l’inquinamento dei corsi d’acqua. Gli alveari si spopolano per il fenomeno del CCD (Colony Collapse Disorder) perché la razza umana sta avvelenando il mondo.
Qualcosa in Italia si può fare e subito. Vietare l’uso dei pesticidi nicotinoidi. In Francia lo hanno già fatto. Sulle api hanno l’effetto della nicotina. Gli fanno perdere il senso dell’orientamento, non riescono a ritornare nell’alveare e muoiono.
Chi usa o produce un pesticida nicotiniode mette a rischio, oltre alle api, anche la nostra sopravvivenza. Datemi una mano, inserite nei commenti di questo post informazioni sui produttori, sugli utilizzatori, sulle conseguenze sull’ambiente.
Chi avvelena un’ape, avvelena anche te.

(http://www.beppegrillo.it 22 agosto 2008)

NO alle "fiestas populares" spagnole!


IL CALENDARIO DEGLI ORRORI
(da http://www.atra.info)

Sono piú di 3000 le “fiestas” in Spagna in cui la gente si diverte a torturare e uccidere animali. Eccone alcuni esempi:

Gennaio
Manganeses Polverosa (Castilla Leon). Una capra viva viene gettata dal campanile della chiesa*.

Febbraio
Villanueva de la Vera (Extremadura). Un asinello cavalcato dall’uomo più grasso del villaggio, attraversa il paese attorniato dalla folla isterica che lo picchia selvaggiamente.

Marzo
Salas de los Infantes (Castilla-Leon). Polli e tacchini vengono uccisi a bastonate da ragazzi con gli occhi bendati, tra le urla della folla scatenata.

Aprile
Tordesillas (Castilla-Leon). Un toro viene rincorso e massacrato a colpi di lancia da un centinaio di uomini a cavallo. Vince la “lancia d’oro” chi riesce ad atterrare l’animale e a tagliargli i testicoli, mentre il toro è ancora vivo e cosciente.

Maggio
Benavente (Zamora). Diversi tori vengono strangolati lentamente con una corda legata al loro collo e tirata da 300 uomini.

Giugno
Coria (Caceres). La folla insegue dei tori attraverso le strade del villaggio lanciando loro freccette e mirando agli occhi. Quando gli animali si accasciano vengono castrati, mutilati e pugnalati fino alla morte.

Luglio
Carpio del Tajo (Castilla la Mancha). Dei cavalieri staccano la testa a oche vive appese a una corda stesa attraverso la piazza del mercato.

Agosto
San Sebastian de los Reyes (Madrid). Dei nani torturano e mutilano alcuni vitellini per ore intere. Quando i vitelli cadono agonizzanti, i nani danzano sui loro corpi.

Settembre
Ciruelas Cifuentes (Madrid). Delle giovani mucche vengono rincorse e schiacciate con dei trattori.

Ottobre
Fuenlabrade (Madrid). Quattro animali (tori o mucche) vengono picchiati, pugnalati, feriti con ogni tipo di strumento dalla folla e muoiono per dissanguamento.

Novembre
Igea (La Rioja). Si spezzano le membra a dei vitelli e poi li si getta nel vuoto da una piattaforma.

Dicembre
Notilla del Palancar (Cuenca). Nel corso di uno spettacolo delle galline vengono lapidate a morte.


*NdR: Pare che dal 2000 non venga più gettata una capra viva, bensì una di pietra-cartone.

Meno carne, più cibo

RIDURRE GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI
PER SFAMARE I PAESI POVERI

Comunicato Stampa LAV, 9 lug 08
Lav diffonde Rapporto sull'industria animale realizzato dalla Wspa.

L’attuale crisi mondiale alimentare figura tra le priorità nell’agenda dei lavori del vertice del G8, riunito da ieri in Giappone, durante il quale il Primo Ministro giapponese auspica una decisione comune rispetto alla questione.

All’interno del summit di quest’anno, infatti, i leader degli 8 maggiori Paesi industrializzati prevedono di concordare la formazione di una task force per affrontare la crisi mondiale alimentare. Tale gruppo avrà lo scopo di affrontare il problema immediato di carenza alimentare dei paesi più poveri, così come sfide a lungo termine, quali l’incremento della produzione alimentare.

Per affrontare il problema dal punto di vista del benessere animale, l’associazione internazionale WSPA (Società mondiale per la Protezione degli Animali), ha realizzato un rapporto, diffuso in Italia dalla LAV, intitolato “INDUSTRIAL ANIMAL AGRICULTURE – PART OF THE POVERTY PROBLEM” (L’INDUSTRIA DELL’ALLEVAMENTO ANIMALE - PARTE DEL PROBLEMA POVERTA’), nel quale mette in evidenza quanto l’allevamento intensivo di animali, destinati al consumo alimentare umano del 20% della popolazione mondiale che risiede nei Paesi industrializzati, incida considerevolmente sulla scarsità di risorse alimentari per i Paesi più poveri.

L’esperto di alimentazione e agricoltura Colin Tudge, che ha scritto la prefazione al rapporto della WSPA ed è l’autore di “Sfamare le popolazioni è facile”, ponendo l’accento sull'impatto dell’allevamento industrializzato di animali sulla povertà a livello mondiale, ha dichiarato: "La relazione della WSPA va diritto al cuore della questione, praticamente, moralmente e politicamente, dimostrando che l’allevamento industrializzato di animali influisce negativamente sulla povertà globale in una dozzina di modi diversi. "

Il rapporto della WSPA propone di esaminare il problema dalla radice, riconsiderando il sistema economico fin qui adottato, e suggerendo, tra le altre soluzioni al problema della carenza di cibo, la rinuncia o la riduzione del consumo di carne, per garantire che i raccolti mondiali di grano possano alimentare il maggior numero di persone possibile.
Il benessere degli animali, quindi, deve essere parte della soluzione del problema della fame e la povertà mondiali.

“Il G8 ha la grande opportunità di accogliere le proposte che ormai vengono da organismi di tutto il mondo e indirizzare chiaramente a una riduzione delle produzioni animali a livello mondiale, liberando ingenti quantità di proteine vegetali impiegabili da subito per contrastare la crisi alimentare mondiale. – dichiara Roberto Bennati Vicepresidente LAV – Non sono più sostenibili scelte alimentari che mirano ad incentivare consumi animali, responsabili della distruzione di foreste, dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento e anche della diffusione delle malattie, come testimoniato da rapporti della FAO. E’ necessario ridurre o eliminare i consumi di animali e promuovere modelli di sviluppo capaci di dare cibo a tutti gli abitanti del pianeta in un sistema di efficace e democratica ripartizione delle risorse”.


Punti chiave della relazione WSPA:

• Ci sono ancora 854 milioni di persone sottoalimentate in tutto il mondo, di cui 820 milioni nei paesi in via di sviluppo, 25 milioni nei paesi in “transizione” e 9 milioni nei paesi industrializzati (dati FAO 2001-2003).
• La storia ha dimostrato che l'allevamento industriale degli animali ha un effetto devastante sugli allevamenti a conduzione familiare, i piccoli agricoltori e le comunità rurali.
• La fame e la malnutrizione uccidono più di cinque milioni di bambini ogni anno, e il costo per i paesi in via di sviluppo corrisponde a miliardi di dollari in perdita di produttività.
• La crescita dei sistemi intensivi di allevamento nei paesi in via di sviluppo minaccia la sostenibilità sia delle popolazioni rurali sia i tradizionali sistemi di produzione alimentare.
• Le grandi aziende di allevamento intensivo di animali tendono alla riduzione dei costi, diminuendo il numero degli addetti, e modificando il patrimonio genetico degli animali.
• Sarebbe più efficace coltivare vegetali commestibili che hanno una buona resa e che possano essere utilizzati direttamente per l’alimentazione umana.
• Il Consiglio Mondiale Alimentare delle Nazioni Unite ha stimato che il trasferimento di “una percentuale tra il 10% e il 15% dei cereali ora utilizzato per l’allevamento degli animali sarebbe sufficiente a garantire l’approvvigionamento alimentare per gli attuali livelli della popolazione umana".

(Disponibile in formato elettronico il rapporto completo “INDUSTRIAL ANIMAL AGRICULTURE – PART OF THE POVERTY PROBLEM” - © WSPA 2007).

Strade pulite

Prostituzione, dopo il blitz la rabbia:
"Quella foto è una vergogna"
L'immagine, scattata all'interno del comando della polizia municipale dopo l'ultima retata, scatena l'indignazione dei lettori e delle organizzazioni di volontariato. Carla Corso, leader storica delle prostitute, si scaglia contro i sindaci sceriffi
(di Stefania Parmeggiani)

Arrabbiata, spaventata e infine esausta. Rannicchiata a terra, mezza nuda, con il corpo sporco di polvere sul pavimento di una cella di sicurezza. La ragazza nigeriana fermata durante l'ultima retata anti-prostituzione e fotografata al comando della polizia municipale di Parma dopo che si era lasciata cadere a terra senza più forze, è diventata, suo malgrado, il simbolo di una nuova "caccia alle streghe", cominciata con la carta sulla sicurezza e proseguita con le ordinanze (applicate o solo annunciate) dei sindaci-sceriffo.

"Che cosa ha fatto di male quella donna per essere messa in una cella?", si chiede indignato un lettore. La risposta, provocatoria, arriva da Carla Corso, leader storica delle prostitute: "E' una indesiderata, un'emarginata, una donna che forse è vittima di una tratta e che cerca di vivere o sopravvivere con il proprio corpo. E questo, in una Italia sempre più intollerante, è diventata una colpa". La lista dei divieti si allunga di giorno in giorno: vietato chiedere l'elemosina, lavare i vetri, rovistare nei cassonetti… "Essere poveri sta diventando un crimine e in questa fascia di nuovi perseguitati i più deboli sono gli immigrati e le donne… Ci sono troppe lucciole che sono schiave e si vendono sui marciapiedi perché minacciate da chi le ha fatte arrivare in Italia".
"Le retate anti-prostituzione – continua – servono solo a fare impazzire le lucciole che scappano da una città all'altra o da un quartiere all'altro in cerca di un clima più tollerante. La ragazza fotografata chiederà mai aiuto a chi l'ha trattenuta in quella cella? Si fiderà mai delle forze dell'ordine? Anche se è vittima della tratta non glielo dirà e se, insieme alle sue colleghe, sarà cacciata in un cono d'ombra ancora maggiore, ad esempio se sarà costretta a prostituirsi in un appartamento, non incontrerà neppure volontari in grado di spiegargli che può entrare in un percorso di protezione. I sindaci-sceriffo stanno cavalcando il tema della prostituzione ottenendo come unico effetto quello di criminalizzare chi avrebbe bisogno di protezione".


"Trovo vergognoso – continua Corso, riferendosi alla foto – quel corpo abbandonato a terra in un comando di polizia municipale. Trovo vergognoso che i nostri poliziotti, carabinieri e vigili urbani controllino gli immigrati senza informarli dei loro diritti e che si scambi la prostituzione per un problema di sicurezza". Informare chi è vittima senza criminalizzarlo, è questo quanto il sindacato delle prostitute e le organizzazioni che scendono quotidianamente in strada per strappare le lucciole ai marciapiedi vorrebbero. A Parma come a Verona, a Roma come a Milano.

Marco Bufo, coordinatore dell'associazione nazionale "On the road", che dal 1990 si sta occupando di prostituzione e tratta, si dice preoccupato del nuovo clima italiano: "Siamo scettici nei confronti delle ordinanze dei sindaci nati sulla scia della Carta di Parma e delle retate anti-prostituzione. Le forze dell'ordine dovrebbero essere inviate in strada non a fare multe, ma a capire i meccanismi che soggiacciono a certi fenomeni, dovrebbero essere preparati per leggere i segnali, capire se di fronte hanno donne vittime dello sfruttamento o meno. Sarebbe necessario guardare in faccia la realtà e trovare soluzioni pragmatiche, ad esempio zone in cui la prostituzione possa avvenire alla luce del sole, invece di alimentare o cavalcare politicamente la percezione d'insicurezza dei cittadini".

Un lettore che si firma con il nick Zavarollo ha una sua soluzione, ovviamente provocatoria (Nei commenti l'intervento integrale, ndr): "Almeno voi, clienti di Parma, siate onesti. Voi che siete sempre riusciti a eludere, chissà come mai, i controlli della municipale e dei carabinieri, unitevi per aiutare le donne che stuprate. Comprategli un appartamento collettivo. Così almeno il sindaco sarà contento. Sotto il tappeto della malavita la polvere del degrado non si muove. E Parma risplenderà più che mai".

(Repubblica, 11 agosto 2008)

Un giornalista racconta...

di Luca Trinchieri (da Liberazione, 7 luglio 2008)

Roma - C´è pure la televisione, per raccontare come la gioventù romana si diverte a Trastevere il venerdì sera. L´ora dell´aperitivo. Le vie attorno a piazza Trilussa gremite di persone. Cinque o sei bancarelle di venditori ambulanti. Un ragazzo ha appena regalato un paio di orecchini alla sua fidanzata. Le sirene della polizia colgono tutti di sorpresa.
Non è un semplice controllo: tre macchine e una camionetta vuota che ha tutta l´impressione di dover essere riempita. È la prima operazione contro i venditori ambulanti dopo l´entrata in vigore del decreto sicurezza, che amplia i poteri per i sindaci in materia di ordine pubblico. Mi fermo ad osservare, come molti altri. Non è curiosità, la mia. È un istinto di controllo.

I poliziotti iniziano a sbaraccare i banchetti. Via la merce, raccolta sommariamente nei lenzuoli su cui era disposta. Un agente tiene un indiano stretto per il braccio, mentre dal suo viso trapela tutto, la paura, la rassegnazione, fuorché l´istinto di scappare. È ammutolito. Un donnone africano, del Togo, è invece molto più loquace. Se la prende quando l´agente raccoglie violentemente i lembi del telo a cui erano appoggiati gli orecchini e le collane che vendeva. «fammi mettere nella borsa, almeno!» dice all´agente. «Non scappo, non ti preoccupare, ecco il mio permesso di soggiorno».
«Ma perché tutto questo? - dice - non stavo facendo nulla di male». All´agente scappa un sorriso, forse un po´ amaro: «è il mio lavoro». Poi la donna incalza: «conosco la nuova legge. Ora mi fate 5.000 euro di multa. Ma perché non ci date un modo di fare questo lavoro regolarmente?» Nessuna risposta dall´agente, che se ne va e lascia il posto ad un collega, molto meno accomodante. «E muoviti, su!», dice senza accennare ad aiutarla a trasportare le sue cose. Lei, con lo stesso sorriso sul volto, chiude la valigia arancione e con le mani occupate dice «dove andiamo, di qua?», mascherando con l´orgoglio la paura che in fondo in fondo le sta crescendo. Mantiene l´ironia però, quando mi avvicino e le chiedo da dove viene. «Da Napoli, bella Napoli, vero?», e intanto, mentre mi svela le sue vere origini africane, si toglie gli orecchini: «questa bigiotteria non mi serve più, stasera».

Due metri più distante due ragazzini italiani, con il loro banchetto in tutto e per tutto uguale agli altri. Devono sbaraccare anche loro, ma gli agenti usano maniere molto più educate. Non li tengono per le braccia, non gli ammassano la merce. La ragazza raduna le poche cose che avevano in vendita. Lui è allibito, terrorizzato, e inizia a parlare nervosamente: «ve lo giuro, è la prima volta che vengo, lasciatemi andare». «Se prendiamo loro dobbiamo prendere anche voi», risponde un agente. Ma alla fine non sarà così. Il ragazzo si dispera, «sono di Roma, non posso credere che mi trattiate allo stesso modo che a quelli lì». Evidentemente è un discorso convincente. Si avvicina un signore in borghese che è lì a dirigere l´intera operazione. «Dottò, Capitano, Maresciallo, giuro che non lo farò mai più...». Si sbraccia, sembra un bambino appena messo in punizione dalla mamma. L´uomo in borghese si mostra irremovibile, ma si capisce subito che vuole solo dargli una lezione, e appena gli altri fermati - 7 persone, tutte straniere - non sono più a vista, lo lascia andare.

A operazione conclusa vado dal signore in borghese, mi presento, «sono un giornalista e ho assistito alla scena. Perché avete fermato solo gli stranieri?», chiedo. La risposta è eloquente. «Portatelo via,identificatelo, e controllate - aggiunge guardandomi negli occhi - perché ha l´alito che puzza di birra». Già, la birra che stavo bevendo prima, e che mi è andata di traverso con tutto quello che succedeva. Per fortuna non è ancora reato, comunque. Mi portano in due verso il ducato dove sono radunati gli stranieri, tenendomi strette le mani sulle braccia. Non mi era mai successo, prima, ed è una sensazione davvero sgradevole.
«Questo per adesso è nell´elenco dei fermati» dice l´uomo alla mia destra, anche lui in borghese, ad un collega. Spalle alla camionetta, mani fuori dalle tasche, cellulare sequestrato. «Perché avete fermato solo gli stranieri?». L´uomo con la polo rosa, quello che mi stringeva da destra, mi risponde, anche se - dice - non sarebbe tenuto: «perché questi sono tutti irregolari». Balle, ho visto con i miei occhi la donna togolese dare il proprio permesso di soggiorno al poliziotto, prima. Ma non mi aspettavo certo una risposta veritiera. «Certo che non avevi proprio nient´altro di meglio da fare», dice con sprezzo uno degli agenti. «Ho fatto una domanda, voglio una risposta». L´uomo in rosa, che ha la mia carta d´identità e sta scandendo il mio nome per radio si gira verso di me, «hai finito di parlare?» grida.
A quanto pare anche rispondere alle domande costituisce un grave errore, e infatti un terzo poliziotto, defilato fino a poco prima si indirizza a me dicendo «guarda che a fare così peggiori solo la tua situazione». Chiedo di sapere i loro nomi e gradi, come avevo fatto già con l´uomo in borghese al principio, convinto che per legge sia un loro dovere identificarsi. Un altro poliziotto - ma quanti ne ho attorno, quattro, cinque? - mi da la sua versione della legge. «Vedi qual è la differenza, è che io posso chiederti come ti chiami e tu non puoi chiedermi niente, chi comanda sono io». Un suo collega aggiunge: «certo, se lo vuoi mettere per iscritto è diverso, ma non te lo consiglio, la cosa si farebbe piuttosto scomoda».
La minaccia mancava, in effetti. Interrompe la discussione l´uomo in rosa. «Luca!», e con la mano mi fa cenno di andare da lui. «Vuoi andare?» «Voglio una risposta alla mia domanda», insisto. «Non hai capito - si spiega - hai voglia di chiuderla qui questa storia o no?». «Non sono stupido, so quello che mi sta dicendo, ma io voglio la mia risposta». Mi accompagna lontano dal furgone, in piazza Trilussa. Davanti a me l´uomo che comanda l´operazione, quello dell´alito puzzolente. Mi chiedo se tornare da lui, ma mi rendo conto che nel gioco del muro contro muro il suo è molto più duro.

Aspetto ancora in piazza, osservo l´operazione concludersi, fino all´istante i cui gli immigrati vengono caricati sul furgone che si mischia al traffico del lungotevere. Non c´è altro da fare, questa sera, se non raccontare in giro quello che ho visto. Questa triste deriva, quest´inverno italiano che avanza. Oggi inizia l´estate.
Evviva

Press rom

Cominciò con un inaspettato censimento etnico, nel mezzo dell'estate di settant'anni fa, la vergognosa storia delle leggi razziali italiane. Alle prefetture fu diramata una circolare, in data 11 agosto 1938, disponendo una "esatta rilevazione degli ebrei residenti nelle provincie del regno", da compiersi "con celerità, precisione e massimo riserbo".
La schedatura fu completata in una decina di giorni: 47.825 ebrei censiti sul territorio del regno, di cui 8.713 stranieri (nei confronti dei quali fu immediatamente decretata l'espulsione).
Per la verità si trattava di cifre già note al Viminale. "Il censimento quindi fu destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare", scrive la storica francese Marie-Anne Matard-Bonucci ne "L'Italia fascista e la persecuzione degli ebrei" (il Mulino). Naturalmente, di fronte alle proteste dei malcapitati cittadini fatti oggetto di quella schedature etnica fu risposto che essa non aveva carattere persecutorio, anzi, sarebbe servita a proteggerli.

Nelle diversissime condizioni storiche, politiche e sociali di oggi, torna questo argomento beffardo e peloso: la rilevazione delle impronte ai bambini rom? Ma è una misura disposta nel loro interesse, contro la piaga dello sfruttamento minorile!
Si tratta di un artifizio retorico adoperato più volte nella storia da parte dei fautori di misure discriminatorie: "Lo facciamo per il loro bene". A sostenere la raccolta delle impronte sono gli stessi che inneggiano allo sgombero delle baracche anche là dove si lasciano in mezzo alla strada donne incinte e bambini. Ma che importa, se il popolo è con noi?

Lo so che proporre un'analogia fra l'Italia 1938 e l'Italia 2008 non solo è arduo, ma stride con la sensibilità dei più. L'esperienza sollecita a distinguere fra l'innocenza degli ebrei e la colpevolezza dei rom. La percentuale di devianza riscontrabile fra gli zingari non è paragonabile allo stile di vita dei cittadini israeliti, settant'anni fa.
Eppure dovrebbero suonare familiari alle nostre orecchie contemporanee certi argomenti escogitati allora dalla propaganda razzista, circa le "tendenze del carattere ebraico". Li elenco così come riportati il libro già citato: nomadismo e "repulsione congenita dell'idea di Stato"; assenza di scrupoli e avidità; intellettualismo esasperato; grande capacità ad adattarsi per mimetismo; sensualismo e immoralità; concezione tragica della vita e quindi aspirazioni rivoluzionarie, diffidenza, vittimismo, spirito polemico e così via.
Guarda caso, per primo veniva sempre il nomadismo. Seguito da quella che Gianfranco Fini, in un impeto lombrosiano, ha stigmatizzato come "non integrabilità" di "certe etnie"; propense –per natura? per cultura? per commercio?- al ratto dei bambini. Il che ci impone di ricordare per l'ennesima volta che negli ultimi vent'anni non è stato mai dimostrato il sequestro di un bambino ad opera degli zingari.
Un'opinione pubblica aizzata a temere i rom più della camorra, si trova così desensibilizzata di fronte al sopruso e all'ingiustizia quando essi si abbattono su una minoranza in cui si registrano percentuali di devianza superiori alla media. Tale è l'abitudine a considerare gli zingari nel loro insieme come popolo criminale, da giustificare ben più che la nomina di "Commissari per l'emergenza nomadi", incaricati del nuovo censimento etnico. Un giornalista come Magdi Allam è giunto a mostrare stupore per la facilità con cui si è concesso il passaporto italiano a settantamila rom. Ignorando forse che si tratta di comunità residenti nella penisola da oltre cinquecento anni: troppo pochi per concedere loro la cittadinanza? Eppure sono cristiani come lui…

Il censimento etnico del 1938, "destinato più a sottomettere che a conoscere, più a dimostrare che a valutare", come ci ricorda Marie-Anne Matard-Bonucci, in ciò non è molto dissimile dal censimento dei non meglio precisati "campi nomadi" del 2008. In conversazioni private lo confidano gli stessi funzionari prefettizi incaricati di eseguirlo: quasi dappertutto le schedature necessarie erano già state effettuate da tempo.
L'iniziativa in corso riveste dunque un carattere dimostrativo. E i responsabili delle forze dell'ordine procedono senza fretta, disobbedendo il più possibile alla richiesta di prendere le impronte digitali anche ai minori non punibili, nella speranza di dilazionare così le misure che in teoria dovrebbero immediatamente conseguirne: evacuazione totale dei campi abusivi e di quelli autorizzati ma fuori norma; espulsione immediata dei nomadi extracomunitari e, dopo un soggiorno di tre mesi, anche dei nomadi comunitari; quanto agli zingari italiani, gli verrà concesso l'uso delle aree attrezzate solo per brevi periodi, dopo di che dovranno andarsene (sono o non sono nomadi? E allora vaghino da un campo all'altro, visto che le case popolari non gliele vuole dare nessuno).

Si tratta di promesse elettorali che per essere rispettate implicherebbero un salto di qualità organizzativo e politico difficilmente sostenibile. Dove mandare gli abitanti delle baraccopoli italiane –pochissime delle quali "in regola"- se venissero davvero smantellate tutte in pochi mesi? Chi lo predica può anche ipocritamente menare scandalo per il fatto che tanta povera gente, non tutti rom, non tutti stranieri, vivano fra i topi e l'immondizia. Ma sa benissimo di alludere a una "eliminazione del problema" che in altri tempi storici è sfociata nella deportazione e nello sterminio.

Un'insinuazione offensiva, la mia? Lo riconosco. Nessun leader politico italiano si dice favorevole alla "soluzione finale". Ma la deroga governativa al principio universalistico dei diritti di cittadinanza, sostenuta da giornali che esibiscono un linguaggio degno de "La Difesa della razza", aprono un varco all'inciviltà futura.
Negli anni scorsi fu purtroppo facile preconizzare la deriva razzista in atto. Per questo sarebbe miope illudersi di posticipare la denuncia, magari nell'attesa che si plachi l'allarmismo e venga ridimensionata la piaga della microcriminalità. La minoranza trasversale, di destra e di sinistra, che oggi avverte un disagio crescente, può e deve svolgere una funzione preziosa di contenimento.

Gli operatori sociali ci spiegano che sarebbe sbagliato manifestare indulgenza nei confronti dell'illegalità e dei comportamenti brutali contro le donne e i bambini, diffusi nelle comunità rom. Ma altrettanto pericoloso sarebbe manifestare indulgenza riguardo alla codificazione di norme palesemente discriminatorie, che incoraggiano l'odio e la guerra fra poveri.
Non si può sommare abuso ad abuso di fronte ai maltrattamenti subiti dai bambini rom. Quando i figli degli italiani poveri venivano venduti per fare i mendicanti nelle strade di Londra, l'esule Giuseppe Mazzini si dedicò alla loro istruzione, non a raccogliere le loro impronte digitali.
L'ipocrisia di schedarli "per il loro bene" serve solo a rivendicare come prassi sistematica, e non eccezionale, la revoca della patria potestà. Dopo le impronte, è la prossima tappa simbolica della "linea dura". Siccome i rom non sono come noi, l'unico modo di salvare i loro figli è portarglieli via: così si ragiona nel paese che liquida l'"integrazione" come utopia buonista.

A proposito del sempre più diffuso impiego dispregiativo della parola "buonismo", vale infine la pena di evocare un'altra reminescenza dell'estate 1938. Chi ebbe il coraggio di criticare le leggi razziali fu allora tacciato di "pietismo". Con questa accusa furono espulsi circa mille tesserati dal Partito nazionale fascista. E allora viva il buonismo, viva il pietismo.

Brecht scrisse...

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me
e non c'era rimasto nessuno a protestare

(Bertolt Brecht)

Roma città chiusa

28 maggio

Negata Piazza S. Giovanni

Il Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, organizzatore del RomaPride’08, rende noto che ad appena 9 giorni dallo svolgimento della parata di sabato 7 giugno, la questura di Roma ha ritirato l’autorizzazione, concessa originariamente in data 11 aprile, a concludere la parata a Piazza San Giovanni con la motivazione di un concomitante convegno e concerto corale all’interno dei Palazzi Lateranensi.

Del problema sul percorso siamo venuti a conoscenza soltanto oggi, durante un incontro tecnico al Comune di Roma e nel conseguente incontro in Questura, senza che nessuna autorità competente l’abbia comunicato prima, nonostante siano passati quasi due mesi dall’autorizzazione originaria e dall’ampia notorietà pubblica data all’evento e al percorso.

Siamo stupiti e amareggiati per l’evolversi degli eventi e per l’incredibile ritardo della comunicazione. Domani, giovedì 29 maggio, alle ore 17.30, presso la sede del Circolo Mario Mieli, in via Efeso 2/a, si terrà una conferenza stampa dove verranno dati tutti i dettagli e comunicate le nostre decisioni.

Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli


29 maggio
Piazza San Giovanni era autorizzata

Apprendiamo dal sito Corriere.it che la Questura di Roma dichiara che non ha mai ritirato l’autorizzazione per Piazza San Giovanni poiché quest’ultima in realtà non è mai stata concessa.

Non vogliamo entrare in polemica con la Questura con cui negli anni abbiamo avuto ottimi rapporti di collaborazione, ma puntualizziamo che in data 11 aprile 2008 il Circolo Mario Mieli si è presentato in via di San Vitale per notificare il percorso del 7 giugno. Quest’ultimo è stato autorizzato da tanto di timbro dalla Divisione Gabinetto e immediatamente faxato al Comune di Roma. Tale documento è in nostro possesso.

Dall’11 aprile in poi nessun autorità competente ci ha comunicato di una precedente richiesta del Vicariato di Roma, soltanto ieri ci è stato fatto presente in conferenza dei servizi di un problema di sovrapposizione di eventi.

Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli

Galline in fuga

GALLINE, LAV RISPONDE AD AVITALIA E UNA: “CONDIZIONI DI VITA DI GALLINE IN GABBIA CENSURATE DA ISTITUZIONI UE E SCIENTIFICHE. ITALIA GIA’ SOTTOPOSTA A PROCEDURA D’INFRAZIONE PER AVER RECEPITO LA DIRETTIVA UE PROROGANDO IL TERMINE DEL BANDO DELLE GABBIE DI BATTERIA”.
La LAV, presente anche oggi in centinaia di piazze delle principali città italiane per chiedere al Governo la conferma del bando al 2012 delle gabbie di batteria per le galline ovaiole (approfondimenti su www.lav.it), risponde alle affermazioni del presidente di Avitalia, Gaetano De Lauretis, e ad UNA, precisando che tale bando è stato deciso dall’Unione Europea nel 1999 sulla base di evidenze scientifiche chiare ed inequivocabili sulle condizioni di vita delle galline ovaiole allevate nelle gabbie di batteria. Queste gabbie provocano alle galline enormi sofferenze fisiche e psicologiche, come evidenziato anche da uno studio scientifico commissionato dalla Commissione Europea, denominato Laywel, che afferma: “il benessere delle galline è gravemente compromesso nelle gabbie convenzionali e queste gabbie non garantiscono alcun potenziale per assicurare un adeguato benessere degli animali.”

Nel 2005, inoltre, l’EFSA, l’Autorità per la sicurezza alimentare, in un suo rapporto ha inequivocabilmente scritto che “…impossibilità di movimento e alti livelli di osteoporosi, costituiscono una grave pregiudiziale al benessere delle galline ovaiole.”
La Commissione UE nella sua relazione al Consiglio e al Parlamento, con la quale il mondo avicolo ha preso atto dell’intenzione dell’Europa di bandire queste vergognose gabbie di batteria, afferma: “…le gabbie di batteria causano diversi problemi di benessere agli animali e sono problemi inerenti il sistema di allevamento”.


Inoltre,
sempre nella Comunicazione al Consiglio e al Parlamento, la Commissione UE ha fatto proprio il parere dell'EFSA secondo il quale: “le galline preferiscono deporre le uova in un nido, possibilmente chiuso e formato da uno substrato premodellato o modellabile. Quindi i pollai dovrebbero disporre di nidi adatti, adeguatamente collocati. Anche bere, mangiare, razzolare e probabilmente fare i bagni di polvere sono comportamenti altamente prioritari. Inoltre, riposare e appollaiarsi sono elementi importanti del benessere dei volatili. Se le galline non possono soddisfare questi bisogni comportamentali primari, le frustrazioni, privazioni o lesioni che ne derivano possono nuocere gravemente alla loro salute e al loro benessere.”

“Basterebbero queste affermazione a dimostrare quanto la denuncia della LAV si basi su dati scientifici e non su interpretazioni di parte – dichiara Roberto Bennati, vicepresidente della LAV – Avitalia, invece, dica chiaramente ai consumatori che le gabbie arricchite di cui parla, ma per le quali gli allevatori non rispettano gli standard, non sono quelle oggi utilizzate dall’industria italiana, quella stessa industria che vuole mantenere le gabbie di batteria convenzionali, ancora in uso ancorché condannate dalla scienza, dall’economia e dai cittadini”.

“Alle affermazioni dell’UNA (Unione Nazionale Avicoltura) che imputa alla Commissione UE il mancato rispetto degli standard per le gabbie di batteria, la LAV ricorda che il rispetto delle norme in vigore non era subordinato alla relazione della Commissione stessa, che rappresentava, invece, uno strumento per valutare l’impatto di tale applicazione – prosegue Bennati – Le leggi si rispettano e le relazioni sull’applicazione servono a vedere quanto le norme vengano applicate. E la Commissione UE, infatti, ha ampiamente constatato che molti Stati UE, tra cui l’Italia, non lo fanno”.

Quello che le associazioni degli allevatori non dicono ai cittadini, infine, è che hanno ufficialmente chiesto e ottenuto dal Ministero della Salute che l’Italia si schieri contro la legge italiana ed europea per il mantenimento di un sistema di allevamento i cui tassi di mortalità sono elevati, il cannibalismo è considerato uno dei maggiori problemi, il taglio del becco degli animali è una necessità, le fratture delle ossa e l’osteoporosi sono solo alcune delle patologie ampiamente diffuse.

L’Italia è stata già deferita alla Corte di Giustizia Europea e ha subito una procedura di infrazione da parte dell’UE proprio per aver deciso, su richiesta di chi oggi grida allo scandalo per le affermazioni della LAV, di recepire la Direttiva europea permettendo l’installazione di gabbie convenzionali oltre il termine previsto dalla Direttiva, e per avere vergognosamente considerato spazio a disposizione delle galline aree interne alla gabbia, in realtà espressamente non considerabili spazi a disposizione delle galline dalla Direttiva stessaconclude Bennati – Questi comportamenti sono delle evidenti violazioni di legge, nonché del rispetto dovuto ai consumatori e purtroppo anche delle finalità che le autorità sanitarie sono chiamate a svolgere.”

9 marzo 2008
Ufficio stampa LAV 06.4461325 – 329.0398535 – 339.1742586 www.lav.it

Finalmente la voce degli scienziati italiani!!

Oltre 600 tra docenti e ricercatori hanno firmato un documento contro il nucleare
"Scelta inopportuna per molti motivi, bisogna puntare con decisione sul solare"

"Energia, la soluzione non è l'atomo"
Appello degli scienziati ai candidati

Solo il solare può garantire all'Italia un futuro energetico sostenibile. Oltre seicento tra docenti universitari e ricercatori hanno sottoscritto un appello "ai candidati alla guida del Paese nelle elezioni politiche 2008" per chiedere che venga messa da parte tanto la tentazione del nucleare, quanto il ritorno al carbone. "In virtù della conoscenza acquisita con i nostri studi e la quotidiana consultazione della letteratura scientifica internazionale - si legge nel documento - sentiamo il dovere di informare la classe politica e il Paese riguardo la crisi energetica e climatica incombente, che minaccia di compromettere irrimediabilmente la salute e il benessere delle generazioni future". "Tutti gli esperti - prosegue l'appello - ritengono che sia urgente iniziare una transizione dall'uso dei combustibili fossili a quello di altre fonti energetiche, così che possa essere graduale".

Se per molti osservatori, soprattutto nel campo economico e politico, la risposta a queste problematiche sta nel ripercorrere la strada del nucleare, gli scienziati firmatari del documento sono convinti che il ricorso all'atomo sia una falsa soluzione. "Riteniamo - scrivono ancora - che l'opzione nucleare non sia opportuna per molti motivi: necessità di enormi finanziamenti pubblici, insicurezza intrinseca della filiera tecnologica, difficoltà a reperire depositi sicuri per le scorie radioattive, stretta connessione tra nucleare civile e militare, esposizione ad atti di terrorismo, aumento delle disuguaglianze tra paesi tecnologicamente avanzati e paesi poveri, scarsità dei combustibili nucleari".

Di contro, i firmatari dell'appello sollecitano "chi guiderà il prossimo governo a sviluppare l'uso delle fonti di energia rinnovabile e in particolare il solare nelle varie forme in cui può essere convertita". "Il sole infatti - ricordano - è una stazione di servizio inesauribile che in un anno invia sulla Terra una quantità di energia pari a diecimila volte il consumo mondiale".

La versione integrale del testo e l'elenco completo dei ricercatori che hanno firmato il documento, promosso tra gli altri dal docente di chimica dell'Università di Bologna Vincenzo Balzani, possono essere consultati su www.energiaperilfuturo.it, il sito online della campagna, dove anche i semplici cittadini possono sottoscrivere l'appello. Al momento tra i firmatari non risulta il nome del premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia, ma proprio pochi giorni fa in un'intervista a Repubblica il celebre scienziato affermava posizioni praticamente identiche.

(da Repubblica.it, 1 aprile 2008)

Satyagraha

"Per me la vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un bambino. Sarei restio ad ammazzare un agnello per sostenere il corpo umano. Trovo che più una creatura è indifesa, più ha il diritto ad essere protetta dall'uomo dalla crudeltà degli altri uomini."
M. K. Gandhi

In questi giorni, come ogni anno, migliaia e migliaia di agnelli sono stati massacrati per fornire l'arrosto di pasqua... Penso che la citazione appena scritta sia una delle migliori per ricordare Gandhi, a sessant'anni esatti dalla sua uccisione.

Non so parlare molto del suo ruolo strettamente politico, che pure fu importantissimo e condusse l'India all'indipendenza. A me Gandhi piace ricordarlo per il suo messaggio spirituale, perché credo che questo sia il lascito più importante che fece al mondo intero. E del resto lui stesso considerava tutta la sua attività politica e sociale come uno strumento per la diffusione della verità e della giustizia tra tutti gli esseri viventi.

Verso la fine della sua vita un giornalista occidentale gli domandò frettolosamente quale fosse il suo messaggio per il mondo. Gandhi rimase colpito dalla domanda e dal suo stile, così brutalmente diretto e semplicistico. Stette in silenzio per pochi secondi, e poi rispose a testa china, umilmente e candidamente: "La mia vita è il mio messaggio per il mondo"...
Come si chiedeva Tiziano Terzani commentando questo fatto, quanti uomini politici oggi potrebbero rispondere così?

Qual è stata quindi la vita di quest'uomo, una vita così esemplare da essere in se stessa un messaggio? Io penso che la vita del Mahatma ("grande anima", come lo designò il poeta indiano bengalese Tagore, dopo il loro incontro) sia stata quella di un uomo che scelse di incarnare perfettamente l'ideale della non-violenza. In realtà, a ben guardare, non c'è altro nella sua vita. Non c'è che la non-violenza.

Ma se si vuole capire veramente Gandhi e il suo "messaggio al mondo", bisogna dire e pensare "non-violenza" esattamente come lo faceva lui. E lui è stato il primo uomo ad aver trovato un modo semantico positivo per esprimere un concetto negativo. La non-violenza, il glorioso ideale di tutta la tradizione spirituale "eretica" indiana, dal Buddha e da Mahavira in poi, ossia l'"ahimsa" ("a" è la particella negativa corrispondente a "non", "himsa" significa "violenza" in sanscrito), lui la trasforma in "satyagraha", ovvero "la forza della verità", qualcosa di positivo da affermare con forza nel mondo. Qualcosa per cui vivere.

Gandhi dunque credeva che esistesse una verità. Credeva che questa verità fosse la legge della fratellanza e dell'amore verso tutti gli esseri. E che il modo in cui questa verità si manifestasse nel mondo fosse la giustizia. Ed era convinto che ogni uomo fosse tenuto a comportarsi secondo questa verità, e a battersi perché questa stessa verità prevalesse nel mondo. Ovunque, e presso tutti gli esseri senzienti, animali compresi. Nient'altro che questo va cercato, credo, se si vuole capire il "messaggio" di Gandhi per il mondo. Nient'altro che la "forza della verità".

Le battaglie politiche erano solo il modo principale che lui aveva scelto per portare avanti la sua lotta personale perché la "verità" si manifestasse nel mondo. In uno dei suoi scritti confessò di considerare l'intera sua vita come "un esperimento con la Verità", in un senso simile, forse, a quello con cui Leonardo da Vinci consacrò la propria vita agli esperimenti sulla natura e le sue leggi.
Ma anche il suo essere vegetariano era satyagraha, era comportarsi in modo tale da sostenere la verità, da farle breccia nel mondo. I suoi digiuni di protesta contro le violenze erano satyagraha. Il suo vestirsi di cotone grezzo bianco era satyagraha, perché il cotone l'aveva filato lui stesso, e questo era simbolo di autogoverno dell'India e di boicottaggio al colonialismo straniero e alle importazioni forzate. E di semplicità contadina. I suoi giorni di silenzio obbligatorio era satyagraha, perché boicottava il rumore concedendo pace al suo animo e permettendo così alla verità di possederlo pienamente.

Una cosa che raramente si sente ricordare, è che Gandhi in realtà aspirava a un'indipendenza per l'India che andasse molto al di là di quella politica dalla Gran Bretagna. Voleva che il suo paese ritrovasse le proprie radici spirituali, che praticasse la satyagraha, che tornasse all'autogoverno agricolo dei villaggi rurali boicottando lo sviluppo industriale. Voleva che l'India raggiungesse l'indipendenza non soltanto dal colonialismo occidentale, ma anche dal modo di pensare e di vivere occidentale.

Sul finire della sua vita, prima che fosse ucciso da un fanatico indù, Gandhi soffrì molto a vedere il suo paese smembrarsi violentemente in 2 stati, e per motivi religiosi oltretutto. Era la fine del suo sogno di armonia e fratellanza tra musulmani e indù in un'unica patria. Forse fu un bene che la morte gli risparmiò almeno l'altra grande delusione: quella di assistere allo spettacolo di un paese portato a tutta velocità sulla stessa strada che i colonialisti appena vinti avevano tentato per 3 secoli di fargli prendere, cioè lo sviluppo industriale. Nehru, il suo figlioccio prediletto, e gli altri suoi collaboratori, avrebbero presto tentato - e sarebbero in parte riusciti nell'intento - di trasformare l'India in una Europa equatoriale.

La sera prima di quella in cui fu ucciso, disse ai suoi che se fosse morto per causa di una pallottola esplosa da qualcuno dei suoi "fratelli" e nondimeno lo avesse in quel momento perdonato, giungendo le mani al modo indiano e pronunciando il nome di dio, allora e solo allora avrebbe potuto considerare sé stesso una persona integra e coerente. Il giorno dopo, la sera del 30 gennaio 1948, nel ricevere la folla dei suoi ammiratori dopo le preghiere serali, Gandhi cadeva a terra sotto i colpi della Beretta (pochi sanno che l'arma era una pistola di marca italiana... e la Beretta in Lombardia chiuse per lutto pochi giorni dopo la morte del Mahatma) del fanatico indù Nathuram Godse giungendo le mani, e invocando il suo dio: "He Ram" furono le sue ultime parole. "Oh Dio!".

(by Francesco)