Qualcuno si è mai chiesto la ragione della castità praticata dai monaci buddhisti?
C'è infatti chi si domanda: "che c'è di male nella sessualità, se praticata tra persone consenzienti e senza ledere terzi?".
Niente, da un punto di vista "mondano". E qui sta il nocciolo della questione. Per capire come mai la sessualità viene proibita ai monaci bisogna andare alle radici culturali del "buddhismo", al contesto storico in cui nacque.
Userò due chiavi di lettura per interpretare la questione, una potremmo dire "marxistoide", perché addita la struttura economica come causa sostanziale dei fenomeni sociali, l'altra "spiritualoide", che guarda alla tensione umana universale verso la trascendenza, e in un certo senso prescinde dalla composizione economico-sociale.
Il contesto da prendere in esame è quello dell'India settentrionale di 2500 anni fa. Quel contesto era del tutto diverso da quello indiano attuale, e molto simile a quello della Grecia classica. Una moltitudine di piccoli regni e repubbliche relativamente autonomi, di impronta agricola, ma che stavano rapidamente trasformandosi in realtà urbane commerciali. Piccole città-stato molto simili a quelle greche. E come in Grecia, anche nell'India del nord, la trasformazione da un'economia agricola a una mercantile stava provocando grandi sommovimenti sociali, grandi inquietudini, che accompagnavano il sorgere di una classe sociale media, in un certo senso paragonabile alla piccola borghesia europea nata con la riforma protestante. Questa classe media si sosteneva principalmente coi commerci.
La realtà rurale arcaica dell'India era quindi in crisi. Con essa, cominciarono a venir messe in discussione anche la religione tradizionale, e la rigida struttura sociale, improntata sulla famiglia patriarcale e le caste. Così, in quegli anni, come in Grecia nascevano le scuole filosofiche, e singoli maestri contornati da discepoli si interrogavano sui principi primi che regolavano la natura, anche in India gruppi sempre più numerosi di persone si ritiravano dalla società, inquieti delle sue regole e polemici verso la ritualità fossilizzata della religione arcaica, e cominciavano a far vita nomade, con lo scopo di trovare il senso della vita (detto in termini moderni).
Il segno visibile esteriore che comunicava il loro status di persone usicte volontariamente dalla società era il fatto di radersi barba e capelli, e di vestirsi di un saio di color zafferano. La loro scelta era una rinuncia sociale, in primo luogo. Sceglievano di boicottare la società arcaica e formalistica, di lasciare le caste di appartenenza, di non lavorare, vivendo di elemosina.
Praticavano la castità, perché boicottare il matrimonio, pilastro della società, era uno strumento formidabile di rottura con l'ordine costituito. Fin qui la spiegazione marxistoide, cmq utile fino a questo punto.
Questi personaggi che rinunciavano alla vita sociale per andare alla radice del senso della vita furono chiamati "rinuncianti", asceti... "Samana" era il termine sanscrito. La veste giallo-zafferano e la testa rasata venivano subito identificati nella società indiana d'allora come i segni di un samana (anche se alcuni samana a posto di radersi si lasciavano crescere i capelli all'infinito, ammassandoli poi in quelle trecce che oggi vengono chiamate dreadlocks, o rasta... ma lo scopo era lo stesso: identificare il soggetto come "ribelle", "asceta", "deviante"). Un ribelle, uno che non condivideva la società così com'era impostata, e che quindi se ne "tirava fuori", rinunciando a ogni possesso e status sociale, per la propria ricerca spirituale.
Tuttavia i samana erano generalmente ben tollerati, e anzi - e questa è una caratteristica tipica dell'animo indiano, sopravvisuta fino ad ora - chi lasciava tutto alla ricerca della verità, chi rinunciava, era ammirato e rispettato. La letteratura antica indiana è piena di aneddoti in cui il re si reca dal maestro samana per interrogarlo su questioni filosofiche. Non è il samana che va a corte, è il re che va a inchinarsi al rinunciante.
E qui si rende necessario il criterio spiritualoide. L'economia non basta. La visione spirituale di base dell'India di allora era che la natura è un immenso gioco cosmico che noi percepiamo in maniera distorta, come un effetto ottico. E' un'enorme illusione sensoriale, un gigantesco miraggio, chiamato "Maya", che intrappola dentro di sé, come una gigantesca matrice, gli esseri viventi, umani e non, e li tiene catturati dentro di se tramite l'illusione sensoriale, tramite il farsi percepire come "realtà".
Gli esseri, ingannati dai loro sensi, non riescono a percepire la vera natura dell'universo in cui vivono, ossia la sua natura di "miraggio", illusione, inconsistenza, guizzo impermanente d'energia fluida, ma lo percepiscono come reale e solida la matrice, e così, illudendosi e ingannandosi, continuano a girare all'infinità in questa matrice condizionata, vita dopo vita.
La morte fa perdere il corpo degli esseri, ma la loro coscienza sopravvive al corpo, e spinta dal desiderio di possedere la realtà naturale che gli appare come solida e reale, continua nell'illusione, riprendendo pertanto, in modo inconsapevole, un altro corpo, e continuando a girare su se stessa all'interno della matrice, come in un sogno, come sotto ipnosi, vita dopo vita, schiava inconsapevole della matrice.
Questa matrice naturale fatta di miraggio che cattura nascondendo ai sensi degli esseri la sua natura illusoria e facendosi percepire reale, e li tiene in sé, vita dopo vita, all'infinito, sottoponendoli a sofferenza e piacere, senza fine, senza speranza, veniva detta "Samsara".
Tutti i movimenti spirituali che stavano opponendosi al potere sociale della vecchia religione arcaica, dominata dal ritualismo dei sacerdoti e dai sacrifici animali, attingono a questa nozione indiana di samsara.
Questa nozione è però molto più antica della religione tradizionale, e probabilmente deriva dalle popolazioni indigene preariane che abitavano l'India quando essa fu invasa dagli indeuropei, che scendevano dalle pianure dell'Asia centrale e dell'Europa dell'est. Gli ariani portarono giù nelle giungle indiane le loro idee religiose di sacrificio, ritualità, culto del fuoco e del vento, e tanti altri elementi che sono simili alle religioni dei primi popoli europei. Arrivati in India, trovarono però un vasto "serbatoio" locale di idee religiose, praticate dai popoli indigeni indiani, e ne assorbirono una parte.
Questo "serbatoio" religioso locale indigeno restò però sempre sotterraneo durante la "colonizzazione" ariana dell'India, nella forma dello yoga. Ed era proprio a questo patrimonio culturale che andavano attingendo ora i samana, i rivoluzionari non-violenti che si ritiravano dalla società in disgregazione.
La concezione di Maya, matrice naturale del Samsara, il ciclo infinito di nascita-morte-rinascita da cui evadere per cercare la liberazione del proprio principio vitale, per accedere a un livello di realtà trascendente, assoluto, non condizionato, privo di dolore e di morte e di rinascita... questa concezione spirituale ancestrale che i samana stavano recuperando in polemica con la società e la religione rurale tradizionale è tutto materiale culturale preariano, è il sapere indigeno degli sciamani yoga, così simile infatti alle nozioni di tutti i popoli indigeni del mondo.
Ora, capito questo, viene forse più facile capire come mai i samana, e il Buddha in particolare (che era un samana), consideravano più utile per il loro ordine di samana asceti il divieto di praticare la sessualità.
Ricapitolando, la visione dei samana era questa:
lo scopo della vita è evadere dalla matrice naturale del samsara, perché in esso non c'è speranza di sottrarsi alla sofferenza prodotta da continue morti e rinascite;
il mezzo tramite cui la natura, Maya, tiene intrappolati tutti gli esseri nel samsara, è il "miraggio" sensoriale, ovvero l'offuscamento mentale derivante da una percezione sensoriale non limpida, e che non rivela quindi la vera natura della realtà dell'universo (ossia la sua inconsistenza, la sua qualità effimera, simile a un arcobaleno o un miraggio... e su questo ci sarebbe da dire molto, perché la fisica attuale, quantistica, è arrivata a conclusioni spettacolarmente simili sulla natura dell'universo), ma lo fa invece apparire come solido, reale, consistente, e induce gli esseri a desiderarlo, in tal modo tenendoli aggiogati nella matrice;
il modo per uscire dal samsara è quello di "ripulire" la percezione sensoriale, affinarla, con la meditazione e lo yoga, per rendersi in grado di vedere la realtà per quello che è, e rompere quindi l'incantesimo di Maya;
una volta che la percezione si fa limpida, si percepisce la natura per quello che è, e ci si "risveglia", ci si "illumina", come appunto fece il Buddha (epiteto che si traduce appunto come "il risvegliato");
per affinare la percezione sensoriale bisogna dedicare tutte le proprie energie alla procedura necessaria a questo affinamento, e cioè alla meditazione.
I legami familiari, gli affetti, e anche il solo sesso fine a sé stesso, sono degli ostacoli in questo senso, perché impiegano le energie mentali che dovrebbero essere dedicate integralmente alla meditazione, e le sviano dirigendoli al piacere dei sensi.
Questo piacere non è un peccato, come nella tradizione cristiana, non è un'offesa a un dio... niente di tutto questo. La ragione è molto più tecnica: è una "distrazione", nel senso letterale del termine, cioè un dis-trarre qualcosa, un attingere a qualcosa, che è l'energia mentale, e convogliare questo qualcosa verso l'appagamento sensoriale.
Quindi, in conclusione, la sessualità, così come i legami affettivi che spessissimo ne derivano, non sono adatti alla vita di un samana, perché nella migliore delle ipotesi lo "distrarre
bbero" dalla pratica assidua e dura della meditazione, togliendogli tempo prezioso per dedicarsi all'affinamento della propria percezione sensoriale.
Il sesso non è un male, anzi è un piacere, e il Buddha affermò che se non vi fosse stata una via di fuga dalla matrice del samsara il sesso sarebbe stata l'unico, tra i piaceri di questa dimensione, in grado di portare una misura decente di consolazione agli esseri intrappolati nella catena dolorosa di nascita-e-morte.
Tuttavia, siccome per fortuna il modo di evadere dal samsara e dalla natura condizionata e di accedere alla dimensione naturale dell'Assoluto, dell'Incondizionato, esiste, e passa attraverso l'affinamento della nostra percezione sensoriale, questo affinamento stesso rende necessario raccogliere tutto il proprio impegno, tutto il proprio tempo e tutta la propria energia, e il sesso renderebbe nella migliore delle ipotesi questo sforzo "meno efficace".
In conclusione, dedicarsi al sesso, e agli affetti, che sono tra i piaceri sensoriali che per loro natura più tendono a "catturare", a intrigare, a conquistare le persone, toglierebbe tempo ed energia alla pratica della meditazione, che è l'unica via verso l'evasione dal ciclo di nascita-e-morte della dimensione condizionata della natura, ovvero dal miraggio di Maya. Evadere da questa matrice naturale effimera e che tuttavia ci tiene saldamente catturati, al punto che i più nemmeno ne hanno coscienza, e arrivano a pensare che questa sia l'unica dimensione reale nell'universo...
Evadere da questa matrice è estremamente difficile, e possibile solo con uno sforzo acuto e prolungato, tramite la meditazione. Questo è quello che sosteneva il Buddha.
E' per questo che fino ad oggi è stato mantenuto l'obbligo della castità per i monaci buddhisti, che sono i samana dei giorni nostri. Esseri umani per i quali la "liberazione" dal samsara è il primo obiettivo, e non possono esserci distrazioni, perché altrimenti la via da percorrere diventerebbe insopportabilmente più lunga e tortuosa.